Paolo Rumiz: “Torniamo alle parole e al loro valore”

Intervista a Paolo Rumiz, fresco vincitore del premio Campiello alla carriera, che porta sul palco lo spettacolo “Canto per l’Europa”, tratto dal suo omonimo libro. “La letteratura – osserva – rischia di diventare una fabbrica di bestseller. Bisogna mettere la parola al centro. Come Europa siamo il punto di sutura tra i mondi e i confini sono luoghi di conoscenza. In Europa serve più Mediterraneo, il mare è liquido amniotico”.

Canto per Europa è andato in scena al Festival Internazionale di Musica da Camera di Cervo (Imperia) proprio nel giorno in cui è stato reso noto che il Premio Campiello alla carriera 2024 è stato assegnato a Paolo Rumiz, che lo ritirerà alla cerimonia ufficiale il prossimo 21 settembre. Lo scrittore e viaggiatore triestino ha portato sul palcoscenico estivo di uno dei luoghi più suggestivi della Liguria di Ponente lo spettacolo che è l’emanazione forse naturale del suo omonimo libro “Canto per Europa” (Feltrinelli, 2021). Un romanzo? Un poema epico? Di certo, in fede al titolo, un canto, più agile nella dimensione orale che sulla pagina, cadenzato com’è dal ritmo dell’endecasillabo. Perché è nella forma classica del verso che la storia di una profuga siriana accolta su Moya, una barca a vela con la sua ciurma multiculturale a zonzo per il Mediterraneo, si dipana tra narrazione, mito, poesia e attualità tra le pagine di Paolo Rumiz.


Si parla di Europa, nome di donna e di una terra ambita, affacciata su un mare solcato da millenni dai popoli che in questo canto fanno vibrare la propria voce, le proprie culture, le proprie risposte agli attriti dei confini e alle incessanti guerre che ieri e, ancora e purtroppo oggi, rendono Europa un mito verso cui salpare, e accendono al contempo interrogativi sulla sua unità. Abbiamo avuto la fortuna di poter dialogare con Paolo Rumiz tra libro e spettacolo (qui sopra nella foto di Marco Macchiavelli), poche ore prima della messa in scena a Cervo.
“Canto per Europa” prende spunto da un viaggio reale che lei ha fatto nel 2017. Questo è un libro che parla tuttavia dell’oggi, basta leggere i giornali di questi giorni e i fatti del Medioriente. Come ha lavorato per passare dall’esperienza di viaggio all’elaborazione di quella che è una storia universale?
«Abbiamo fatto questo viaggio con la stessa barca che poi è descritta nel libro, Moya. La barca quindi è l’unico vero personaggio narrato e raccontato con il suo nome. L’abbiamo fatto per entrare in sintonia con la ricerca di un personaggio mitico che è l’Europa. Il viaggio ci ha messo a confronto con altre barche venute da lontano, con le popolazioni di terraferma – che fossero turche, greche, libanesi o italiane – e con loro veniva spontaneamente fuori il discorso su dove andava l’Europa. Tutti infatti ci chiedevano perché andassimo in giro con una barca inglese che portava il vessillo stellato d’Europa: era una contraddizione e una provocazione. Da qui, e dalla nostra intenzione di trovare lo spirito d’Europa, è nata l’idea di trasfigurare questo viaggio in qualcosa di più concreto».
Come è avvenuta questa “trasfigurazione”?
«La cosa difficile è stata mescolare, con mille accorgimenti, il mito con l’attualità. Il verso mi ha aiutato, perché raccontare l’attualità in versi dà già a tutto una dimensione mitica».
Non a caso “Canto per Europa” è il titolo. Ed è davvero un canto, con la sua struttura ritmica data dall’endecasillabo. È stato pensato così per la carta o già come uno spettacolo?
«Né l’uno né l’altro: è nato per poter raccontare ad alta voce qualcosa che ha assunto quasi spontaneamente la forma del verso. Avevo già alle spalle un certo allenamento con l’endecasillabo e scrivere il libro era indispensabile per dare unità a tutto: solo dopo è diventato uno spettacolo».
Spettacolo che porta in scena con Lara Komar, Giorgio Monte, Vangelis Merkouris e Aleksandar Karlic. Com’è lavorare con loro?
«Il nostro gruppo è una ciurma, esattamente come quella descritta all’interno del libro: tra di noi c’è un rapporto affettivo molto forte, anche se ci vediamo pochissimo e, anzi, approfittiamo di chiamate per rappresentazioni anche in luoghi lontani dalle nostre terre solo per poterci riabbracciare. Non so se ha visto l’inizio delle prove di oggi, erano molto molto… diciamo così, prive di professionalità inizialmente, perché eravamo distratti della bellezza dello stare assieme. E così io, nonostante la mia veneranda età, mi sottopongo ancora a questi viaggi».
Nel libro si respira una densità linguistica interessantissima, il lavoro sulla parola è ricco di riferimenti letterari che saltano fuori dalle pagine. Considerando l’attualità e i conflitti che ci mette davanti agli occhi tutti i giorni, cosa rappresenta per lei oggi la letteratura, cosa ci può ancora dire?
«Trovo che oggi la letteratura rischia di diventare una fabbrica di best seller che si bruciano in poco tempo. C’è bisogno che gli scrittori e gli intellettuali entrino in campo e facciano politica: non in senso partitico, ma per riportare le parole al centro. Se noi oggi non riusciamo a fermare guerre come quelle in Ucraina e in Medio Oriente è anche per un impoverirsi del nostro vocabolario: non abbiamo più la capacità di mediare, non abbiamo più quella formula magica, sillabica e ritmica di cui l’ultimo grande interprete per me è stato Churchill. Lui ha vinto una guerra e ha evitato l’invasione dell’Inghilterra perché con i suoi discorsi, senza nascondere niente della gravità della situazione, è riuscito a compattare l’intero paese in un momento in cui il paese era solo davanti al più grande esercito d’Europa».
La parola, quindi, al cuore di tutto.
«Bisogna ritornare alle parole e al loro valore. A me piace l’idea che io coltivi un campetto di parole, ecco, il Campiello va un po’ in questa direzione. L’ho saputo solo due giorni fa informalmente, che mi avrebbero premiato. Questo pensiero mi viene in mente proprio questa sera: l’idea di un campetto di parole. Che cos’è l’immortalità dello scrittore? Niente, ma lo scrittore diventa immortale – anche se del suo nome non resterà traccia – quando consegna a chi verrà dopo di lui un tesoretto di parole ben conservate, cariche della loro emozionalità e della loro energia vitale».
A proposito di parole, gliene propongo una gigante: Mediterraneo. “Canto per Europa” è un libro di mare, di barca, di salsedine e di Mediterraneo. L’Europa del titolo è un personaggio femminile ed è geografia, ma che cosa rappresenta, invece, la prospettiva mediterranea che tiene insieme Oriente e Occidente oggi ormai separati?

«Quando ho incontrato un anno e mezzo fa Ursula von der Leyen le ho detto in pubblico in un teatro con cinquecento persone, senza che lei, da sfinge, facesse una piega: “mettiamo più Europa nel nostro atlantismo”. Era una frase che riassumeva tutto. Però vorrei aggiungere: “mettiamo anche più Mediterraneo nella nostra Europa”. Perché lì è nata la democrazia, la filosofia, il diritto, la tragedia, un patrimonio inestimabile che abbiamo. Il Mediterraneo è un bacino che unisce tre continenti che sfogano in questo mare energie culturali, antropiche, economiche senza eguali. A noi dall’Atlantico arriva tanto poco che non sia un’egemonia, a volte sfrontata. Noi siamo Europa, siamo il punto di sutura tra i mondi».
Questa sera siamo affacciati proprio sul Mediterraneo..
«Ed è un godimento leggere “Canto per Europa” qui. L’abbiamo fatto persino in montagna, in posti fuori dal mondo, eppure anche in quelle occasioni il messaggio riusciva ad arrivare».
Che cosa rappresenta il mare per lei?
«Il mare è liquido amniotico. Per una persona anziana è anche il passaggio da un mondo di conquiste verticali a un mondo di pacificazione orizzontale. Anche se le buriane in mare sono ciò che di più spaventoso possa esistere».
Uomo di confine lei, a nord-est, terra di confine questa, a nord-ovest, ultima provincia prima della Francia. Che cos’è il confine per Paolo Rumiz?
«Per i miei genitori che avevano vissuto la guerra era un luogo pericoloso, un luogo sismico. Per me, invece, è stato un interessantissimo sismografo, cioè un misuratore delle tensioni, ma anche delle grandi mutazioni che mi circondavano. Bastava il passaggio di un camionista o di una nave perché io sentissi profumo di cose che avvenivano molto più lontano. Per me, e lo considero sempre di più tale, il confine è, quando non diventa un muro, un meraviglioso luogo di conoscenza. Credo che non vi sia un antidoto più efficace ai muri che stanno proliferando oggi – e includo in questi muri i vergognosi reticolati che l’Europa sta producendo – di un confine ben pattuito e ben sacralizzato tra i confinanti. Un confine che sia lì a dire “noi siamo diversi, possiamo vivere assieme, ci ascoltiamo, ci conosciamo e insieme andiamo verso un destino comune”».
Il prossimo viaggio?
«Con i nipotini, i miei tesori!».

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