“Le ballate di Narayama” è il lungo racconto che rivelò Shichirō Fukazawa, una favola senza happy end, ispirata a una crudele leggenda, quella che in certi paesini di montagna con scarse risorse, gli anziani si facessero da parte per non gravare sulle comunità. L’ultimo viaggio della settantenne Orin è sulle cime innevate di un monte sacro. Metafora del malconcio Giappone uscito dalla seconda guerra mondiale, ma anche dell’indomabile anima nipponica…
Qualcuno ricorderà un vecchio gran film degli anni Ottanta, magari ignorando che ne esiste anche un altro, di qualche decennio prima. Sarebbe però meglio tornare alla storia originale, a un impeccabile e perfetto racconto lungo che segnò il debutto letterario di Shichirō Fukazawa (1914-1987): l’Italia lo conobbe pubblicato da Einaudi come Le canzoni di Narayama, ma era da tempo fuori catalogo e adesso torna nella scintillante traduzione di Giorgio Amitrano (che ha scritto un breve saggio in appendice, Guardando la luna che splende sul monte Obasute), con un nuovo titolo, Le ballate di Narayama (115 pagine, 12 euro), per la casa editrice Adelphi.
Sopravvivenza e tradizione
Ci si immerge in un microcosmo isolato e montano, un paesino giapponese di ventotto case, sospeso nel tempo, fra pratiche primitive e l’alternarsi delle stagioni. Sullo sfondo una leggenda crudele. Shichirō Fukazawa narra di un olocausto aberrante: gli anziani giunti a settant’anni sono allontanati, condotti in cima al monte Narayama, e lì abbandonati, di fatto costretti a morire di stenti, per non pesare sulle rispettive famiglie: anche questa è sopravvivenza, la sola necessità in una simile società, anche questa è tradizione, il desiderio di non gravare su una comunità vittima della penuria di cibo. Orin è una donna alle soglie del settantesimo anno di vita, di piena consapevolezza del proprio destino ma che, prima di farsi da parte, vuol, trovare una moglie per il figlio da poco rimasto vedovo. Compiuta quest’operazione per lei fondamentale e, in attesa della nascita di un nuovo nipote, si prepara fisicamente (spezzandosi i denti, ad esempio, il lettore scoprirà perché…) e spiritualmente alla fine dell’esistenza. Lo fa quasi con gioia, salutando i propri cari, prima di salire sul monte, progettando di preparare doni e pietanze per tutta la popolazione.
Un pellegrinaggio tra scheletri e cadaveri
È una specie di favola senza happy end, quella di Shichirō Fukazawa, in cui la tensione sale impercettibilmente, fin quando il figlio di Orin, Tatsuhei, non la porta a spalla su una tavola di legno fino alle cime innevate del monte Narayama. Un pellegrinaggio che la donna affronta in silenzio, a labbra serrate, pur sollecitando il recalcitrante primogenito, inorridito, quanto più si va in alto e si trova la neve, a vedere scheletri e cadaveri. «Capolavoro assoluto e sgradevole», per Yukio Mishima, il libro di Shichirō Fukazawa scuote, interroga, probabilmente racconta anche, attraverso la metafora di una remota misera provincia, il Giappone travolto dalla seconda guerra mondiale. Fiera, orgogliosa, impavida, Orin rappresenta l’indomabile primitiva anima nipponica (altro che samurai e geishe), concentrata sul bene comune e sul sacrificio che conduce alla rinascita.
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