Dinamico e fresco è il primo romanzo del regista Fulvio Risuleo, “La tenda”. Mollato dalla fidanzata per futili motivi, e rimasto fuori casa, il protagonista affronta il dolore in modo personalissimo, l’ancora di salvezza è dormire in una canadese acquistata dopo il litigio con la ragazza, un modo di cercare stabilità, di restare saldi sulla terra…
Se volete sapere cosa succede quando un regista incontra la dimensione cartacea, abbandonatevi tra le pagine de La tenda (192 pagine) di Fulvio Risuleo, pubblicato da Fandango. La sensazione è quella di assistere alla sceneggiatura di un film messa nero su bianco. Un copione dinamico, fresco, con scambi di battute spedite ed incisive che si lascerà leggere con la stessa facilità ed entusiasmo con cui siete abituati a guardare le vostre serie TV preferite… senza tralasciare qualche importante riflessione sull’amore, i suoi drammi e i nostri disordini.
L’idea
Martino viene mollato dalla fidanzata mentre si apprestano a scegliere la tenda per il loro primo campeggio insieme. Una banale litigata, qualche rapida frecciatina di fronte ad un commesso imbarazzato e Martino si ritrova piantato in asso nel negozio, solo con la sua canadese, che decide di acquistare ugualmente anche se l’idea del campeggio è chiaramente sfumata. O forse no? Ora che si ritrova fuori casa e non sa dove passare le prossime notti, una tenda sembra un pratico e confortevole rimedio a questa catastrofica situazione.
Così Martino mette a punto una sua personale versione di “campeggio urbano” piazzando la sua canadese rossa ogni notte nella diversa abitazione di colui che si offrirà di ospitarlo, un amico, un parente o un estraneo appena conosciuto. E proprio come ognuno di loro, neanche Martino stesso sa veramente da dove nasca quella stramba idea e perché lo stia facendo.
Un’intima resilienza
Non dice mai di no Martino, né attua volutamente delle vere e proprie selezioni per decidere dove passare la notte. Fondamentalmente segue il flusso degli eventi per vedere dove lo portano. Un fiume di possibilità che gli apre gli scenari più ampi.
Ma è un tentativo di restare attivo o la paura che fermarsi lo costringa a riflettere?
Cosa rappresenta quella tenda per lui? Un tentativo egocentrico di mettersi in mostra, un’idea artistica postmoderna, l’utopia di vivere libero, lontano dalle costrizioni del mondo moderno?
Farsi delle domande è già un bell’inizio, per le risposte non c’è fretta.
Le risposte del resto possono essere tutte valide, così come può esserlo il loro contrario. Il modo che ognuno di noi ha di affrontare il dolore è personale e dovrebbe essere immune da ogni critica o tentativo di teorizzazione.
Un giusto compromesso
Ci sono delle forze misteriose dentro di noi che, in alcune circostanze ci spingono a prendere di petto una situazione, ad agire tempestivamente per trovare la risoluzione ad un problema, in altre invece ci calamitano verso l’immobilità. L’istinto di Martino sembra guidarlo verso un giusto compromesso: non si crogiola nel dolore, cerca di continuare la sua vita anche se in quel momento gli sembra estranea, salvo poi ritrovare la pace nell’intimo calore della tenda, il suo spazio personale all’interno del quale resta la parvenza di essere tutto intatto.
Martino sta vivendo un momento di spaesamento e la tenda diventa un po’ come la sua coperta di Linus. L’oggetto emblematico che gli infonde sicurezza quando tutto intorno sembra crollare. Durante un terremoto interiore le pareti della nostra certezza vacillano e sfuggono al tentativo della nostra presa per cercare la stabilità. La tenda è il simbolismo proteiforme nel quale ciascuno di noi trova il proprio appiglio, un salvagente, un’ancora di salvezza che ci tiene saldi alla realtà.
L’epicentro del microcosmo personale è fragile, oscilla ad ogni mutamento che ne mina la fermezza. Ed ognuno trova i propri escamotage per restare in piedi… anche se questo implica stendersi in una tenda!
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