Area 22. Elie Wiesel e i ventuno portavoci di Dio

Non solo profeti propriamente detti, ma anche patriarchi, sacerdoti, giudici i protagonisti raccontati ne “Il dono della profezia” di Elie Wiesel. Ciascuno di essi ha udito prima, e parlato dopo: la Parola giunta dall’alto si è abbassata al loro livello di esistenza, presupponendo le loro estreme marginalità umane e sociali. Torna la rubrica Area 22, dedicata alla letteratura e alla cultura ebraica (qui tutte le puntate precedenti)

Un titolo tanto ampio quanto puntuale, quello scelto da Elie Wiesel per questo testo: Il dono della profezia (Giuntina, 316 pagine, 20 euro); un titolo capace di abbracciare potenzialmente tutta l’umanità, unanimemente chiamata all’ascolto di una Parola che – folle del desiderio di comunicare sé stessa – vuole permutarsi attraverso la voce degli uomini, anche quando questa è talvolta spezzata dagli spasimi della loro personale sofferenza, o arrochita dai loro limiti, dalle loro fragilità. Un sottotitolo, però, si aggiunge a restringere il focus di questo testo che, attraverso una precisa scelta dell’Autore, si concentra solo su un’emblematica rappresentanza: Ventuno personaggi biblici.

Persone prima che personaggi

“Personaggi” perché? Forse perché biblici? Perché, cioè, resi noti dalle pagine della Scrittura? O perché, piuttosto, divenuti recettori di questa Parola, hanno vissuto un’esperienza umana di cui, ad un certo punto, la Scrittura non ha potuto più fare a meno? Questa, personalmente, la prima scia di domande che mi ha accompagnato lungo l’avvincente lettura di questo libro (qualcosa si anticipava in questo video).

Sì, è vero, personaggi “biblici”. Ma così capaci di rassomigliarci che, inevitabilmente, non è difficile condividere con loro la tensione e il dramma tipicamente umano che, oltre a renderli tutti omogenei secondo il tema principale di quest’opera, li fa così prossimi alle nostre vicissitudini quotidiane; tanto più quanto noi, trovandoci a condividere con loro la difficoltà di un ruolo di mediazione (in famiglia, al lavoro, nella propria comunità di fede o, in generale, all’interno di qualunque consesso umano), ci sentiamo tante volte stretti e costretti tra ciò che udiamo, o che abbiamo udito, e ciò che diciamo, o che sappiamo di dover dire.

Dietro ognuno di questi ventuno personaggi, che appartengono al passato solo fino ad un certo punto, si scorge dunque, per esempio, nell’inverarsi meraviglioso dei cristalli letterari che diventano carne del lettore, l’ombra possibile di un qualsiasi genitore, di un insegnante, di un capo politico, di un leader religioso, di un comandante militare, di un direttore d’azienda e di chi, per farla breve, occupa un posto di responsabilità tale da dover prendere quelle tipiche decisioni che si giocano tutte tra la possibilità di una scelta vera, autentica, difficile ma realizzante, e l’altra: la più facile e mediocre popolarità; quella che appartiene solo a chi, per non scontentare nessuno, dice a ciascuno solo ciò che ognuno vorrebbe sentirsi dire. La parola tranquilla, paciforme, politicamente corretta, quella sempre declinata nel plastico sorriso colloquiale da vetrina, quella che non offende nessuno, rende tutti contenti, e nega a chiunque il segreto della vera felicità, perché sarebbe troppo faticoso il prezzo di una tale conquista.

Non così i profeti. Non la loro Parola, che non è la loro.

Che vita da profeti!

Ed è tutto qui il loro dramma. Farsi portavoce di Dio, chiavi sonore di un’intenzione che li precede come presenza metafisica, e che li chiama ad un’opera totalizzante di “traduzione”, nel senso più drammatico di questa parola: una consegna di sé stessi a questa presenza e, dall’altra parte, in modo assolutamente speculare, una consegna (talvolta fino alla morte) ai sordi destinatari del loro annunzio.

Vita difficile, dunque, quella di questi profeti, che – se ne accorgerà il lettore più avveduto sul piano di una conoscenza biblica men che basilare – non rispondono esattamente alla categoria più tecnica del termine.

Nell’opera secolare dei redattori biblici, i Neviìm sono infatti una categoria sociale precisa, un gruppo ben definito di gente che, ad un certo punto, riceve dal Signore una patente all’annunzio: una chiamata ad essere, in mezzo al loro popolo, gli altoparlanti di Dio. La Scrittura, da un lato, ce li mostra come numerabili, identificabili anche solo attraverso il particolare genere letterario e una ben definita sezione di libri.

Ma Wiesel – e qui, a mio avviso, sta la duplice bravura dell’Autore nella scelta di un tale soggetto – individua ciò che, tra le righe, mostrandoci i suoi profeti canonici, la Scrittura ci dice sulla profezia in generale, e cioè sul fatto che, al di là di ogni parametro formale di riconoscibilità letteraria, profeta è chiunque abbia ascoltato e, sulla base di quanto ascoltato, abbia scelto di vivere e di agire in un certo modo.

Quindi ecco Elia, Ezechiele, Isaia, Giona, certo… e molti altri profeti propriamente detti. Ma, insieme a loro, anche altri nomi come Ruth, Noè, Sara, Sansone, Ester, Aronne, eccetera: personaggi rubati ad altre categorie bibliche, come quelle dei patriarchi, dei sacerdoti, dei giudici, o dei semplici (e grandiosamente affascinanti) protagonisti dei Ketuvim: quegli scritti che, nell’apparenza della novella breve leggera, sono le sintesi narrative forse più intense ed efficaci di una Scrittura capace, talvolta, di farsi anche romanzo, racconto, fiaba, storia nella storia.

Tutti costoro, dunque, in barba al loro quartier redazionale d’origine, partecipano del dono della profezia e ce lo mostrano; non tutti hanno avuto un roveto, un bastone, né tutti sono stati rapiti in cielo da carri infuocati o consacrati con tizzoni ardenti posti sulle loro labbra, ma ciascuno di essi ha udito prima, e parlato dopo: la Parola giunta dall’alto si è abbassata al loro livello di esistenza, presupponendo tutte le loro ferite, i loro vissuti, le loro estreme marginalità umane e sociali; ciascuno di questi ventuno personaggi, travolti da Qualcuno che li ha scelti e chiamati nonostante l’angusta limitatezza della loro verità esistenziale, ci interpella in modo così personale da far sì che ciascuno di noi, indistintamente, in un modo o nell’altro, finisca per diventare il ventiduesimo personaggio di questo libro.

Quando a ventuno… ne manca ancora uno!

Un ventuno, dunque, che si apre alla possibilità di un 22 che – per sopravvivere – ha bisogno di uscire fuori dalla pagina e diventare qualcosa di preciso in qualcuno che legge. Una Parola, quella profetica, cui non bastano le ventuno lettere di altrettanti personaggi biblici, ma gliene servono 22 per poter essere scritta. Un libro, dunque, vocato a completarsi solo quando, accostandoci a coloro di cui esso ci parla, ce ne facciamo prosecuzione ideale.

Rimarrà per sempre una mia curiosità (fino ad un certo punto, perché intimamente sono convinto che sia andata così…) sapere se, in effetti, il numero di questi ritratti fosse strategico, ammiccante, fosse un invito alla completezza della Parola, che ha bisogno di tutti noi per essere annunziata. E se invece fosse un caso? Se i personaggi di questo libro fossero ventuno solo perché di questi e non di altri ci ha voluto parlare Wiesel? Beh, nessuno ci potrebbe impedire di interpretare il “caso”, che spesso è lo pseudonimo di Dio e che, appunto, sul palcoscenico dell’esistenza umana, è spessissimo la quinta privilegiata da cui entra in scena il profeta, anche occasionale, purché attento, curioso, vivo. E dunque degno d’essere raccontato a qualcuno.

Seduzioni biografiche

Wiesel, già infermo conclamato nella stupenda malattia di chi sa fermarsi dal narrare le vite degli altri, non è nuovo a testi di questo genere. Giuntina ce ne offre almeno due (Personaggi biblici attraverso il Midrash e Cinque figure bibliche), ma sono tante le occasioni – letterarie e non – in cui egli cede, per la fortuna di tutti noi, alla seduzione narrativa.

E così appare evidente come parlare della profezia, in questi termini più ampi e comprensivi, gli serva da escamotage per fare quello che gli viene meglio, e che egli adora fare più di ogni altra cosa: raccontarci vite interessanti, piene di umanità, legate alla terra prima che al cielo, ricche di elementi drammatici ma fortemente intrisi di contingenza (la stessa in cui inciampiamo noi, ogni giorno) prima che di assoluti. In tal maniera, gli è veramente difficile – attraverso il suo canale preferenziale di scrittura – non riuscirci a comunicare ciò che gli sta a cuore. Il tutto, peraltro, in questa complessa trama di consegne, di tradizioni come di traduzioni, è arricchito da una mediazione preziosa, che conosce il logos dell’Autore e ce lo rende davvero in modo profetico, proprio perché comprensibilissimo: Vanna Lugattini Vogelmann.

Da sempre impegnato nella descrizione tremenda di un XX secolo che per lui si è declinato essenzialmente come un fenomeno di sopravvivenza al male, Wiesel non manca – accattivandoci con particolari biografici mutuati dai midrashim come dal Talmud – di introdurci sempre più in profondità all’interno del mistero umano da un lato, e di quello divino dall’altro. E, un po’ per lui, un po’ per l’opera di chi ce lo ha tradotto in italiano, a noi questo libro si rivela come lettura per nulla impegnativa (se si esclude la portata di un tema così importante), agilissima perché sostanzialmente dialogica nella sua più intima intenzione; presupponente, cioè, un lettore capace di chiedere, di incuriosirsi, di volerne sapere sempre di più. Un di più che non solo Wiesel non fa mai mancare (ogni personaggio è descritto diffusamente, in pagine e pagine) ma che, spinto dal nostro desiderio di conoscenza, e dunque dal nostro esser caduti nella sua trappola narrativa, lo incoraggia ad aumentare, riga dopo riga, lo spessore dei contenuti, come pure le citazioni, le introspezioni psicologiche che giocano al rimbalzo tra la mente degli uomini e quella di Dio, in una vera e propria antropologia teologica. I libri di Wiesel sono case di marzapane!

Il memoriale della parola profetica

E poi… ci sono quelle piccole traduzioni in ebraico traslitterato che, all’apparire del vero strategico di questo libro, si rivelano nel loro intento più misticamente performativo. La Parola, quando è pronunciata, performa la realtà, la crea, la ricrea. E questo non vale sono per il NOME, che proprio per questo non può essere pronunziato, ma per ogni singola parola. Quando un bimbo dice per la prima volta “mamma”, ecco che una mamma viene creata.

Vale veramente per tutto. La Parola (che appartiene tanto all’ordine dei segni quanto a quello dei prodigi, e che dunque è sempre un “ot”) è istanza profetica innanzitutto nel momento preciso in cui, udita, si riverbera nel suono – per quanto imperfetto – dell’uomo che la ripete.

Ed è proprio attraverso questo probabile espediente che Wiesel, mentre sta parlando di questo o di quell’altro profeta, lascia cadere sul pavimento della pagina, come i sassolini di Hansel e Gretel, qualche parolina in ebraico, ma scritta in modo tale che chiunque, anche chi non conosce le 22 lettere, possa leggerla per poter… ritornare a casa. E infatti succede questo: ci ritroviamo davanti una parola strana, straniera, mai letta, mai sentita, ma che in quel momento ci parla di un contatto tra Dio e l’uomo, e la leggiamo, a voce alta perché vogliamo ascoltarne il suono, vogliamo sentire che sensazione ci dia la vibrazione di quella lingua.

E accade. La Parola risuona e si performa nelle piccole sillabe balbettate dall’incertezza di un lettore che, in quel momento, e senza neanche saperlo, sta profetando. Perché la ripetizione, per quanto balbettata, è la prima profezia, il primo memoriale della Parola. E poco ci importa questo essere balbuzienti nelle nostre mille incertezze e nei nostri limiti… Qualcuno lo fu prima di noi.

È tutto questo che ci fa gustare le pagine di Wiesel: ciò di cui scrive, come lo scrive e, soprattutto, cosa riesce a fare – in modo invisibile – mentre scrive; mentre noi, lettori appassionati di vite altrui, impariamo in queste a riconoscere la nostra.

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