Marco Mancassola, cultura dance e frammenti di intimità

L’ultima edizione di un testo necessario, “Last Love Parade” di Marco Mancassola è l’occasione per approfondire la storia della musica elettronica a partire dalla fine degli anni Ottanta, fra droghe, corpi immersi in un moto perpetuo, capitalismo aggressivo e totalizzante e una sorta di romanzo di formazione, innervato da un’amicizia in cui la differenza si trasforma in separazione…

Ho scelto la storia della musica elettronica e della cultura dance come filo ideale lungo cui disporre alcuni temi del sentire degli ultimi decenni del XX secolo e dell’inizio del XXI, oltre a qualche frammento di intimità. Mi interessava parlare del flusso libero e per molto tempo imprendibile che una certa musica è stata, e di tutte le reazioni che ha provocato. Chimiche, sociali e sentimentali.

Uscito nel 2005 per Mondadori, Last Love Parade (286 pagine, 20 euro) di Marco Mancassola è stato ripubblicato da Il Saggiatore nel 2012 e ancora nel 2022 (in mezzo, nel 2016, un’edizione francese) a conferma della vitalità di un testo evidentemente necessario, che continua ad ampliare la cerchia dei propri lettori. Anche la più recente (“ultima”?) edizione accumula, come gli anelli concentrici di un albero, le relative code a ciascuna delle edizioni precedenti: postfazioni nelle quali l’aggiornamento (nell’edizione francese) sui sottogeneri, le scene internazionali e i musicisti si mescola all’assorta, personale riflessione sul progetto organico di questo saggio: una storia della cultura dance, della musica elettronica e dei miei anni, come riportava, per pudica sottrazione, il sottotitolo presente solo nella prima edizione, svolto comunque nelle più argomentate righe di apertura riportate.  

Le tappe di un trentennio

Fedele alla premessa, Last Love Parade delinea un quadro della dance culture contemporanea, sviluppatasi dopo la contestazione giovanile, il femminismo, la liberazione delle minoranze (gay, afroamericani…) agli inizi dell’era informatica e subito prima dell’aids, in un momento in cui si formava, in realtà, anche il clima economico neoliberista. Ed è interessante questa osservazione su una coincidenza cronologica, che ricorre nel corso delle pagine e che può essere letta nei modi diversi, talora compresenti, di assimilazione e/o separazione e/o contrapposizione. In generale l’accostamento è per lo più usato come perplessa e feconda chiave di lettura antropologica e politico-economica per ripercorrere le tappe del trentennio circa di un fenomeno articolato e mutevole.

Un rito collettivo, tribale

Fenomeno innanzitutto, inevitabilmente sonoro: un ritmo ipnotico, con bpm (battiti per minuto) via via più parossistici, di suoni prodotti da una strumentazione tutta elettronica, spesso creata o innovata autonomamente dai dj. Inscindibile dai luoghi che l’hanno accolta nel corso degli anni. Depositi industriali e fabbriche dismesse, case occupate: uno spazio-tempo provvisoriamente liberato dalla rete delle leggi produttive, proibizioniste e di controllo, secondo il pensiero di Hakim Bey. E ancora club urbani più o meno celebri e inclusivi, raramente le strade di una grande città, come la Berlino del 1996, infine spazi aperti noti solo per passaparola, in una natura distante – per scelta romantica o per autotutela – dagli agglomerati urbani e al riparo dalla stretta repressiva dei governi. Qualunque sia il luogo, ciò che vi si svolge è un rito collettivo, tribale, che persegue il piacere fortemente fisico di corpi immersi in un moto energico e perpetuo, in qualche modo connessi fra loro e con un altrove dalle droghe sintetiche, dall’ecstasy soprattutto, laddove la più recente cultura polydrug (con l’offerta di varie sostanze alla portata di molti) trascina ciascuno in un personalissimo gorgo.

Testimone credibile e profondo

Marco Mancassola ci porta dentro questo mondo con un atteggiamento di disponibile condivisione, senza indulgere troppo in tecnicismi né eccedere in cataloghi di brani e generi, ed è anche grazie a questa impostazione che riesce a coinvolgere il lettore mediamente curioso e interessato alla contemporaneità, incluso quello che (è il caso di sta scrivendo queste righe) non ha vissuto in prima persona quelle esperienze. Ciò al contrario dell’autore, il quale racconta quel mondo dall’interno a partire dalla fine degli anni Ottanta (terzo punto del sottotitolo), rafforzando la propria narrazione con la credibilità e la profondità del testimone che è stato per anni un partecipante attivo e coinvolto.

Non solo un saggio…

Molto più avanti l’autore definirà contaminato il proprio saggio, avendovi innestato qualche frammento di intimità, come anticipato nell’incipit: cenni del proprio vissuto, di ciò che, con più ampia estensione, avrebbe potuto costituire un canonico romanzo di formazione in forma di autobiografia (più o meno reticente, come tutte), anziché, prevalentemente, di saggio, appunto. Tuttavia, in senso lato Last Love Parade è anche un romanzo di formazione, considerato sotto l’ottica stretta dell’influenza della cultura dance nella vita dell’autore. Forse, più che contaminato, lo direi innervato dal rapporto di amicizia, intenso e particolare – come lo è nell’adolescenza e nella giovinezza – con Leo, un reale alter ego col quale la differenza, l’alterità va emergendo, anzi, si va costruendo, col mutare del tempo, dello spazio, delle esperienze, fino a trasformarsi in un elemento di separazione. Leo è al banco. Beve qualcosa che somiglia a un tè. Guardo la sua faccia, dal tavolo. […] La guardo, e quella della ragazza con cui ha attaccato discorso […] posso intuire, dal modo in cui le parla, dal modo in cui si girano entrambi a guardarmi: lo conosco da dieci anni, le sta dicendo. Lui è quello che ha equilibrio. Lui è quello che cade sempre in piedi… C’è una lucida consapevolezza nel manovrare questi frammenti, riportati in un’apparente casualità ora in prima persona (io-Leo-noi), ora in seconda (tu-Leo-voi) nell’intento di rendere la distanza emotiva di chi scrive. Mancassola può anche riprendere, lo fa una sola volta, lo stesso episodio sopra riportato (qui è solo un frammento) per restituircelo circa duecento pagine dopo come attraverso un binocolo rovesciato: prima di perderlo l’avevi visto parlare con una ragazza. Oh, forse era paranoia. O forse davvero stava parlando di te e di voi, e ripetendo i discorsi che ripeteva sempre…

La qualità della prosa

Non so se la scelta del nome Leo sia un omaggio al Tondelli di Camere separate (letto decenni fa e tornatomi in realtà in mente per qualche scena in discoteca) con cui peraltro mi pare di cogliere una consonanza per lo sguardo vigile sul mondo esterno e la venatura introspettiva, esistenziale. L’amicizia con Leo è comunque una traccia intermittente che rimane accessoria, subordinata al tema del saggio. È su questo che l’autore focalizza il suo interesse, su questo organizza le cinque parti del libro, sostanziandole col proprio vissuto. Non come il reduce di un’esperienza della quale darà testimonianza dopo esserne uscito, ma come colui che ne progetta la scrittura mentre la sta vivendo: a Detroit, ad uno sconosciuto parlo di un libro che sto scrivendo sulla musica elettronica. Per quanto il riferimento all’attività dello scrivere ricorra en passant in una manciata di parole in tutto, incluse altre due, forse tre volte nel corso del testo, in una di queste viene definita il lavoro che vorrebbe fare. La cura formale ed espressiva di chi ritiene la scrittura il lavoro che vorrebbe fare, che in realtà sta facendo, si evidenzia nella qualità della prosa di Last Love Parade, nella scelta di un lessico preciso e mai sciatto, nei come con cui vengono articolate considerazioni o descrizioni inedite, nell’uso dei saltuari Oh, con cui apre certe affermazioni (Oh, forse era paranoia), equivalenti a un “Intendiamoci! / Facciamo attenzione!” per ribadire-sollecitare il contatto col lettore cui sta raccontando un mondo in balia di un capitalismo aggressivo e totalizzante aggiornato infine all’era della connessione perenne, un’epoca che è stata, che è, di tutti, non soltanto dell’autore.

Tutti dicevano che era un mondo ormai virtuale, illusorio, che la realtà era spettacolo e viceversa. Che la politica era morta, il cinema era morto e la letteratura. Sapevi di cosa stavano parlando, erano teorie che comprendevi bene, eppure tu eri vivo, avevi ancora un peso e un corpo. In quel mondo così finto perdevi sangue vero, drammatico, più reale che mai.

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