La lingua cambia nel tempo perché è un prodotto storico, ma c’è un contesto ideologico-culturale che tende a influenzare i comportamenti linguistici, dalla sinistra woke barricata sulle posizioni del politically correct alla destra identitaria contraria alle contaminazioni colonizzanti dei forestierismi. Nel suo saggio “Le guerre per la lingua” il linguista Edoardo Lombardi Vallauri confuta entrambe le posizioni
«È in corso una guerra per il controllo della lingua italiana», sostiene il linguista Edoardo Lombardi Vallauri in Le guerre per la lingua (144 pagine, 13 euro) edito da Einaudi; proprio in un momento storico in cui la comunicazione è sempre meno sorvegliata e regredisce a forme e contenuti di una post-verità fluida che ha perso in esattezza, perspicuità e grammaticalità, la lingua sembra stare a cuore a chi quotidianamente arricchisce gli annali dei solecismi; tanto che «la situazione è grammatica», denunciano gli esperti del mestiere; e se c’è un aspetto, infatti, che accomuna gli schieramenti in guerra, denuncia Lombardi Vallauri, è da ravvisare nella comune ignoranza in materia di linguistica. Gli attacchi provengono da svariati fronti che si raccolgono intorno a due vessilli: da una parte una sinistra woke neoprogressista sostenitrice del politically correct che vede in ogni marca morfologica della lingua italiana il nemico da combattere, il fantasma del patriarca che un tempo la sinistra operaia, studentesca e femminista combatteva nelle piazze ora sui salotti più confortevoli e cool della speculazione pseudo-saussuriana; dall’altra una destra conservatrice e identitaria che difende la limpieza de sangre della lingua dalle contaminazioni colonizzanti dei forestierismi. Posizioni, entrambe, che Lombardi Vallauri smonta con gli strumenti del sapere accademico.
Il contesto culturale
«Chi controlla la lingua controlla una fetta di potere reale» è assunto su cui Lombardi Vallauri edifica le sue argomentazioni; ci costringe a guardare la realtà attraverso un filtro manipolato, adulterato, deformato; non è tanto la lingua in sé, infatti, con le sue regole intrinseche che la strutturano e ordinano, a veicolare una nostra immagine del mondo ma è il contesto culturale a influenzare i nostri comportamenti linguistici, a determinare il rapporto tra significante, significato e referente. La lingua è un prodotto storico, ciò significa che cambia – molto più velocemente nel lessico e più lentamente nella struttura morfosintattica, sì, ma cambia! – con il modificarsi organico e progressivo dei rapporti tra soggetti storici; chi oggi vorrebbe invece imporre all’italiano dall’alto un’accelerazione “inclusiva” o arrestare la sua naturale evoluzione ravvede in essa il pericolo e non nel bisturi che la vorrebbe snaturare o imbalsamare artificialmente, sulla base di posizioni meramente ideologiche, come invece denuncia il linguista.
Che la guerra in atto sia di natura culturale non strutturale è evidente ad esempio quando ci si imbatte in messaggi e slogan politici come “Giù le mani dalla famiglia/ No ai matrimoni omosessuali”, (in questo caso si tratta di un manifesto diffuso dalla Lega); quel “famiglia” non può non essere interpretato come unione eterosessuale e non perché la parola sia portatrice di tale significato ma perché è l’interpretazione di essa ad essere viziata da un sottinteso ideologico che l’asserzione successiva implica.
È una questione di cultura sessuofobica, ancora, se avvertiamo in “prostituta” un tono moralmente spregiativo pur non rientrando nella categoria degli slurs come invece i sinonimi “puttana, troia”.
Nazionalismi contro gli anglismi
Il primo fronte su cui si combatte questa guerra, per entrare nel vivo della trattazione di Lombardi Vallauri, è quello cruscante del purismo nazionalistico che avversa gli anglismi perché avvertiti come elementi contaminanti che minacciano la superiorità della lingua italiana; vexata quaestio che ciclicamente si presenta nelle epoche di maggiore scambio e innovazione (come nel Settecento e nell’Ottocento) e in quelli di più acceso nazionalismo. La nostra epoca è la sintesi di queste due tendenze: una forte spinta globale all’innovazione, da una parte, in cui si sono imposte le economie più avanzate, statunitense e anglosassone in Occidente, e di conseguenza la lingua che le media, l’inglese; dall’altra i risibili tentativi di protezionismo più culturale che economico (per cui è evidente l’ipocrisia che soggiace a tale operazione) dei paesi meno produttivi, meno competitivi a guida nazional-populistica, come l’Italia.
«Nessuna lingua è pura» affermava Melchiorre Cesarotti nel Saggio sopra la filosofia delle lingue pubblicato nel 1785; non lo è l’italiano mutuato dal latino e che nel corso dei secoli ha subito cambiamenti in seguito a occupazioni, guerre, migrazioni, pellegrinaggi, scoperte geografiche, commerci con altri popoli, contaminazioni, per dirla tecnicamente, con lingue di sostrato, superstrato e adstrato, che hanno lasciato traccia nel nostro patrimonio linguistico, arricchendolo e non depredandolo. «L’inglese è solo l’ultimo arrivato», spiega Lombardi Vallauri e non è così invadente come si vuole far credere. Quando una lingua incontra un’altra, i cambiamenti possono riguardare la fonetica, la morfosintassi o il lessico; nel caso del contatto tra la lingua italiana e l’inglese, gli apporti più significativi hanno riguardato perlopiù in questi ultimi anni «i prestiti linguistici non adattati» (computer, scanner, click, mouse, selfie, business, meeting…) cioè parole che «si presentano in italiano con la loro forma originale», sono state meno intaccate, invece, la pronuncia e la struttura morfosintattica difficilmente permeabili ad influssi esterni; inoltre, lo stesso apporto lessicale dell’inglese non è così invasivo come i puristi denunciano; infatti, come spiega Serianni in Manuale di linguistica italiana, è solo una questione di «temperatura percepita», «un’illusione ottica amplificata dai mezzi di comunicazione di massa su cui non si è ancora abbattuta la scure del tempo come sempre avviene nella storia delle lingue» e non c’è lockdown reale o figurato che tra-ttenga!
Settemila parole
Ciascun parlante medio italiano, spiegano i linguisti, fa uso nella comunicazione scritta e verbale di un vocabolario di base che è costituito da circa settemila parole; un bagaglio di lemmi più frequentemente usati all’interno del quale la presenza dell’inglese, come afferma anche il linguista Federico Albano Leoni, è marginale tuttavia utile per definire stili e forme di vita anglosassoni e statunitensi che si sono imposti nel villaggio globale e per esprimere una egemonia tecnica e finanziaria in cui l’inglese ha il primato mondiale. Non si tratta dunque di una guerra tra lingue, ma di un «rapporto di forza» tra culture in cui a prevalere è quella di maggior prestigio, sostiene Lombardi Vallauri, perché «produce più cose utili», perché “portatrice di contributi più concreti rispetto alle altre”.
È a rischio l’integrità della nostra volgar lingua? Semmai è a rischio la credibilità di chi fa abuso di anglismi semplicemente per ostentare una manieristica e affettata adesione a un modello culturale di successo; insomma è una questione estetica di misura, di “sprezzatura” per usare un termine in auge nel Rinascimento, dall’etimo latino, e che, a riprova di quanto già asserito, oggi giace dimenticato nelle pagine della trattatistica cortigiana.
Sessismo, pigrizia, ignoranza
Stando all’analisi dei non addetti ai lavori, la lingua rappresenterebbe il nemico ora per eccesso di anglismi ora di sessismo; Lombardi Vallauri ci mostra l’infondatezza di queste accuse, dimostrando come al contrario, siano proprio questi apprendisti stregoni della linguistica a mettere a repentaglio la salubrità della lingua italiana che non abbisogna di altro che delle sue regole. Quali? La lingua, corpo metamorfico, è sottoposta all’azione della contaminazione, della moderazione e del senso del gusto e della convenienza, del tempo, e ancora della frequenza, dell’economia, della brevità, semplicità e praticità; in nome del principio della frequenza il maschile dei sostantivi che designano una professione (dottore, avvocato, professore, direttore, scrittore, sindaco, ministro…) si è imposto sul femminile, in quanto nella realtà erano gli uomini fino a qualche tempo fa a svolgere ruoli apicali e di successo: è un dato di fatto però che le donne si stiano affermando negli stessi campi un tempo a predominio maschile, quindi, sostiene Lombardi Vallauri, la lingua, che descrive e parla della realtà, non può ignorare questo cambiamento anzi mette a disposizione dei parlanti gli strumenti necessari per non discriminare, formazioni al femminile come: avvocata, ministra, assessora, direttora, sindaca; e, se a noi possono suonare scorrette, basterebbe riflettere ad esempio sulla contrapposizione di genere tra critico/critica per avvalorare tale possibilità: se attribuiamo il maschile alla figura di un critico letterario, al femminile il sostantivo assume il significato della disciplina stessa; lo stesso ad esempio accade alla coppia cacciatore/cacciatora, il femminile esiste ma è meno frequente ed è usato come aggettivo riferito a pietanza. Il maschile si è imposto nella lingua, dunque, perché ritraeva una società caratterizzata dal prevalere della figura maschile nell’esercizio della critica letteraria o della caccia, per stare negli esempi. Non è la lingua a mancare di forme marcate al femminile, ma è la nostra civiltà ad averle usate poco fino ad oggi per designare il ruolo delle donne sempre più emergente e che non si può più ignorare. Ad influire sulla resistenza dei parlanti, oltre alla cultura evidentemente sessista, contribuiscono in misura maggiore pigrizia e ignoranza ma è solo una questione di tempo, assicura Lombardi Vallauri, di abitudine e adattamento alla nuova realtà.
Economia delle forme
Le questioni legate al genere linguistico, tuttavia, non si esauriscono qui; i più bellicosi e le più bellicose nella lotta alla parità morfologica avanzano rivendicazioni restando intrappolati nella trincea proprio di quel doppio plurale: “bellicosi e bellicose”; la nostra grammatica, non adusa a intoppi ideologici nel dispiegarsi rapido della comunicazione, procede secondo necessità pratiche in nome di una economia delle forme che affranca il parlante dalla lentezza che imporrebbe l’enumerazione al plurale di maschile e femminile insieme, quando basterebbe una sola forma e la forma che si è storicamente attestata è quella del maschile. Per intenderci, sarebbe stato sufficiente dire “i più bellicosi” per capire che i soggetti logici in questione siano tanto uomini che donne; così come usiamo il plurale “colleghi, “signori”, “bambini”, “studenti” … per significare entrambi i generi. Chi accusa la lingua di favorire il sesso maschile nella società attraverso un uso maschilista delle desinenze parla di maschile “sovraesteso”; ossia un maschile che invade il campo del femminile e lo relega nelle quote di minoranza. Il fenomeno della sovra-estensione sarebbe passato dalla lingua alla realtà e viceversa, in un circolo vizioso da cui se ne uscirebbe cambiando la lingua con interventi estranei alla logica del suo funzionamento. Come la tanto discussa introduzione del fonema scena (ə) o del segno paragrafematico*.
Lombardi Vallauri confuta tali posizioni dimostrando come il prevalere del maschile, al di là delle plausibili ma ipotetiche ragioni culturali che lo avranno favorito nel corso dei secoli, si spieghi sulla base di meccanismi tutti interni alla struttura linguistica. Innanzitutto basterebbe riflettere sull’uso del maschile “sovraesteso” usato anche per riferirsi ad oggetti inanimati o ad animali per assolvere la lingua da accuse sessiste: quando si parla di “animale-i” o di “granchio-granchi” “fenicottero-i, … ad esempio a nessuno verrebbe in mente di designare con apposito sostantivo o desinenza il genere femminile; o nella frase “I gatti sono diffidenti”, non ci sogneremmo certo di interrogarci sulle ragioni dell’assenza delle gatte o sulla concordanza al maschile plurale di “diffidenti” nel caso in cui la frase diventasse “I gatti e le gatte sono diffidenti”. Ancora, quando concordiamo un aggettivo-participio al maschile plurale in una sequenza di oggetti o animali (Viali e strade sono deserti) non siamo indotti a pensare ad una discriminazione subita dai sostantivi femminili come accadrebbe in un enunciato come “La mamme e i papà sono spesso troppo apprensivi nei confronti dei loro figli”, dove “apprensivi” si riferisce tanto alle mamme quanto ai papà. L’italiano, infatti, avendo solo due generi, come due numeri (singolare e plurale) non contemplando il genere neutro che apparteneva ad esempio al latino usa il maschile per neutralizzare il genere, come forma convenzionale non marcata morfologicamente, desemantizzata, in altri termini “asessuata” che non esprime cioè alcun genere. L’uso del maschile non marcato si spiega sulla base di quello che André Martinet definì “principio di economia” cioè la propensione dei parlanti ad ottimizzare le risorse linguistiche, ossia a minimizzare gli sforzi, regolarizzare i paradigmi, neutralizzare le eccezioni
I passaggi storici
Sul perché sia prevalsa la forma maschile e non quella femminile, come genere di base non marcato, cioè così frequente da essere percepito «più adatto a rappresentare la totalità», si può solo provare a congetturare una spiegazione storico-culturale riconducibile alla maggior presenza degli uomini nella società e quindi di riflesso nel discorso auto-rappresentativo che quelle organizzazioni primordiali e patriarcali andavano elaborando; ma non possiamo stabilire quanto maggiormente gli uomini fossero nominati rispetto alle donne. La riflessione linguistica invece ci permette di comprendere oggettivamente le ragioni strutturali della prevalenza del maschile e quindi la sua affermazione come forma non marcata: l’italiano è una lingua romanza, deriva cioè dal latino che aveva una prevalenza di nomi maschili in -us e di neutri in -um; il passaggio dei sostantivi dal latino all’italiano è avvenuto dal caso accusativo, che si è affermato sugli altri cinque casi come quello sintatticamente non marcato (per le stesse ragioni di economia e praticità che hanno fatto del maschile desinenza privilegiata); ciò vuol dire che da lup-um (accusativo maschile singolare) o da don-um (accusativo neutro singolare) abbiamo avuto gli esiti – lupo- e – dono-; pertanto hanno fatto ingresso nella lingua italiana in numero maggiore rispetto ai femminili sostantivi maschili e neutri confluiti nelle sole desinenze del maschile -o al singolare, -i al plurale. Chi ignora questi passaggi storici della lingua parla di maschile sovraesteso e sessualmente prevaricante; ma la lingua non stabilisce gerarchie, non opera in nome di distinzioni ghettizzanti semmai tende alla semplificazione delle forme; le sue regole valgono indistintamente per nomi che si riferiscono a persone, cose, animali e referenti astratti; chi la attacca come forma di privilegio invece, assumendo posizioni ideologiche, la condanna all’infondata accusa di strumento d’oppressione.
Danni collaterali
Così non schwa! Per dirla con il titolo di un saggio di Andrea De Benedetti edito da Einaudi nel 2022 che affronta la questione analogamente a Lombardi Vallauri, dimostrando quanto sia errato e ai limiti del ridicolo applicare al codice linguistico quello ideologico, imporre a tavolino modifiche all’ecosistema linguistico che storicamente nasce dal parlato e dal basso e non per decisioni innescate volontariamente. L’introduzione di schwa o di un asterisco è caldeggiata da quanti addebitano alla lingua, alle marche morfologiche di genere e al maschile non marcato (sovraesteso) la responsabilità di una società sessista e identitaria; ma i linguisti, come Lombardi Vallauri e De Benedetti ne denunciano i danni collaterali; danni innanzitutto di natura articolatoria, strutturale, estetica. L’asterisco può solo riguardare la lingua scritta, è un segno grafico privo di suono, impronunciabile; lo schwa (ə) invece è dotato di un corpo fonematico, è contemplato da altri alfabeti e presente in AFI (alfabeto fonetico internazionale), quindi potrebbe ottenere anche nell’italiano un permesso di soggiorno nel divenire linguistico; ma pensare di sostituire le vocali finali delle parole è irragionevole innanzitutto perché non si tiene conto del fatto che i cambiamenti linguistici siano lenti, prodotti dalle masse dei parlanti e involontariamente. Noi articoliamo i singoli fonemi delle parole e quindi i significanti meccanicamente; scegliamo le parole non i suoni di esse; calare dall’alto una riforma morfologica sarebbe impensabile in quanto non «si potrebbe parlare se non si dovesse ogni volta decidere quali suoni adoperare per comporre le parole». Inoltre, adottare lo schwa ci imporrebbe di volta in volta scelte di campo ad ogni frase, ci obbligherebbe cioè a riflettere in quali situazioni usarlo e valutare se le parole adoperate siano indiziate di sessismo oppure no; la comunicazione diventerebbe farraginosa, lenta, impossibile; per non parlare poi di questioni più prettamente grammaticali: quale articolo usare come forma non binaria sia al singolare che al plurale? Dovremmo esprimerci con “Glə” (da gli maschile) studentə” o “lə (da la articolo femminile) studentə”? E ancora da quale tema partire in caso di sostantivi in cui l’opposizione maschile/femminile dipende da suffissoidi, come “studente-studentessa”, “pittore/pittrice”? E poi dal punto di vista fonetico per quale pronuncia optare ad esempio in “ideologə laicə” al plurale? Per quella del maschile -gi/ci o del femminile gh/ch?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi che investirebbero l’impalcatura normativa della lingua e la destinerebbero al caos di scelte peregrine, pretestuose e soprattutto chimeriche se lo scopo è favorire una società più inclusiva; il cambiamento può anche passare, come suggerisce Lombardi Vallauri, attraverso proposte linguistiche non binarie, a patto che siano accolte come occasionali, come una «forzatura episodica per attirare l’attenzione su conflitti il cui vero terreno di guerra continua a non essere la lingua!».
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