“Sulla strada abbiamo un altro nome” di Laura Cwiertnia è la storia di un viaggio da Brema all’Armenia. Lo compiono Karla e suo padre Avi, dopo la morte della nonna che ha lasciato alcuni indizi per svelare un piccolo mistero nella loro terra dei loro avi. Sarà l’occasione per la scoperta di un mondo interiore e del genocidio armeno, un dramma capace a fatica di vincere silenzio e oblio
Come si fa a trovare qualcuno senza sapere chi si cerca?
Compito ancor più arduo se si scopre poi che ciò che stiamo in realtà cercando è la nostra stessa identità.
Quando muore sua nonna, Karla convince il padre Avi ad accompagnarla in Armenia, loro terra d’origine, per far luce su un piccolo mistero. La nonna ha infatti lasciato un braccialetto con un biglietto destinato ad una donna che nessuno sembra conoscere. L’unico indizio sono un nome ed un indirizzo armeno.
L’omertà della sua famiglia nei confronti del passato, ha fatto si che Karla, a differenza dei suoi coetanei di Brema, non sappia quasi nulla delle sue origini e della terra da cui proviene.
Ho collezionato nella mia mente i pochi ricordi che mio padre negli anni mi ha raccontato del suo passato come altri collezionano francobolli.
Con la speranza e il presentimento che il biglietto lasciato dalla nonna possa aiutarla a riordinare e a dare un senso alla sua collezione di francobolli, Karla decide di partire per Erevan. Sullo sfondo di una città sovrastata dal monte Ararat in cui «ogni angolo è il soggetto di una cartolina» Karla, accompagnata dal padre, passeggerà tra le colorate case in pietra attraversando le silenziose e discrete vie del mercato con le sue ordinate bancarelle, sempre guidata da una strana sensazione di familiarità verso un popolo di cui non conosce nulla ma al quale è consapevole di appartenere.
“Come si fa a trovare le proprie radici in un luogo in cui non si è mai stati?”
Il viaggio di Karla è anche e soprattutto un viaggio metaforico alla scoperta di un mondo interiore che le era stato fino a quel momento precluso dai silenzi della sua famiglia e che la porterà verso la riscoperta di se stessa e delle sue origini. Non sempre però i ricordi sono piacevoli. Mentre Karla scopre qualcosa di se, il padre rivive qualcosa della sua infanzia.
Scavando nella memoria di quattro generazioni, nel romanzo Sulla strada abbiamo un altro nome (220 pagine, 18 euro), tradotto per Mar dei Sargassi edizioni da Alessandra Iadicicco e Jolanda Balzano, Laura Cwiertnia accompagna il lettore attraverso la rievocazione delle persecuzioni armene, del genocidio e della conseguente migrazione di un popolo alla ricerca di un futuro privo di sangue e dolore.
Ogni capitolo è un capitolo della vita dei protagonisti e i continui salti temporali che ci permettono di rivivere questi ricordi, sono la struttura portante del romanzo che conferiscono sinuosità alla narrazione senza mai perdere di vista il filo conduttore.
La scrittura della Cwiertnia è infatti precisa, diretta e moderna, senza inutili orpelli finalizzati ad imbellettare lo stile ma che nulla aggiungerebbero alla realtà dei fatti narrati. La dignità delle sue parole è quella stessa di un popolo che ha dovuto subire ingiustizie spesso dimenticate e privato della possibilità di urlare la propria sofferenza ad un mondo sordo.
La memoria di un popolo è nella sua identità
Dai pogrom del 1894, al genocidio durante la prima guerra mondiale: l’intenzionalità dei massacri compiuti ai danni della comunità armena è sempre stata respinta dalla Turchia, e persino in Italia il genocidio è stato riconosciuto ufficialmente solo nel 2000.
Mentre un milione e mezzo di armeni (ovvero i due terzi dell’intera popolazione) perdeva la vita, gli esecutori turchi negavano fortemente ciò che in realtà stavano commettendo.
C’è una serietà in questi occhi che non ho mai visto prima. Quella di chi ha dovuto guardare quando tutti si voltavano dall’altra parte.
La storia della famiglia di Karla è anche quella di un popolo. Un dramma generazionale, personale e collettivo, capace di resistere al tempo, al silenzio e all’oblio.
Gli armeni che per sopravvivere sono dovuti fuggire, hanno lasciato dietro di sé tutto: la propria casa, gli affetti, i ricordi di una vita, per cercare di costruirsene una nuova in una patria che gli accogliesse e desse loro una prospettiva di salvezza. Ma quando si è costretti a rinunciare persino al proprio nome, per paura di essere identificati e marchiati, cosa resta della memoria di un popolo?
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