Schernire la mafia, Sabella racconta Serafina Battaglia

Frantumare il muro di omertà, irridere, disprezzare e sconfiggere la mafia. È possibile e lo dimostra la vita di Serafina Battaglia, raccontata nel romanzo “Lo Sputo” da Marzia Sabella, procuratore reggente di Palermo. Una rivoluzionaria e dolorosa figura di madre, a cui uccidono il marito e il figlio, una donna sola e isolata, raccontata con poesia, ironia e umanità

Lo sputo (169 pagine, 14 euro) di Marzia Sabella, Sellerio editore Palermo, è un romanzo che racconta la storia di Serafina Battaglia, una donna di mafia che si ribella alla maffia. Una figura arcaica, tragica e al contempo rivoluzionaria, è quella di Serafina, detta Fina, la vedova con la P38, ferro e Rosario, suoi compagni di vita. Dopo avere perso marito e figlio, ammazzati dalla mafia, comincia la sua rivoluzione, rompendo, in maniera pionieristica, se può dirsi, il muro dell’omertà, sputando le verità conosciute, compiendo propriamente il gesto volgare e simbolico dello sputo, perfino nelle aule di tribunale, sbeffeggiando gli uomini d’onore e cosa nostra, all’epoca, chiamata maffia. L’autrice è una magistrata, Procuratore reggente di Palermo, prima donna a ricoprire questo incarico apicale, in uno degli uffici giudiziari italiani più importanti. In dieci potenti e poetici capitoli, la Sabella traccia un ritratto profondo, perturbante e reale di una protagonista dell’antimafia ante litteram, singolare, col suo fardello di dolore viscerale e corporale che non lascia indifferente il lettore.

Gli anni Sessanta, un altro mondo

Viene consegnato alla memoria il profilo di donna Fina Battaglia e allo stesso tempo un excursus, tra le righe, della mafia e della società siculo-italiana degli anni sessanta del Novecento. Erano tempi in cui la parola mafia non si poteva pronunciare. Il fenomeno mafioso non esisteva né per lo Stato né per la Chiesa né tantomeno per la Giustizia era facile inchiodarla. Fina, da donna di mafia diventa donna che cerca giustizia denunciando e rompendo il muro dell’omertà, facendo i nomi dei mafiosi e andando a processo, lontano dalla Sicilia, dove venivano celebrati i dibattimenti per legittima suspicione o, chissà, per provare ad annegarli. Attraverso la parola leggiadra, di Marzia Sabella, intrisa di poesia, ironia e umanità, si ripercorre la solitudine e l’isolamento di una donna abbandonata dai parenti dopo la sua scelta.

Sottovalutata perché donna

Una rivoluzionaria e dolorosa figura di madre, d’impronta tragico-greca, alla quale uccidono il figlio, per lei sempre bambino benché avesse 21 anni, 5 mesi meno tre giorni, Salvatore, Totuccio, Lupo Leale, vittima del destino che lo fa nascere in una famiglia mafiosa, portando il doppio cognome, ovvero quello del marito abbandonato da Fina, per andare a convivere con Stefano Leale. Totuccio, anima pura, viene istigato dalla madre a vendicare il padre ammazzato dalla mafia nel settembre 1960. Un gesto che non avrebbe mai compiuto, tanto da fallire nel suo tentativo di vendetta e dopo due anni circa, la mattina del 30 gennaio 1962, si ritrova egli stesso vittima nella guerra di mafia tra Palermo ed Alcamo e vittima stessa della vendetta che avrebbe voluto la madre. La figura di Serafina, in quanto donna, sottovalutata dagli uomini di mafia, stretta nelle sue vesti nere, dalla testa ai piedi, come morte e dolore eterni, spiazzò i mafiosi. Li lasciò increduli e divertiti, in un certo senso, per la forza folle di sputare addosso a loro, con gesti e parole teatrali, dopo averli portati alla sbarra, ma canzonandoli e umiliandoli, nelle aule di tribunale, davanti a tutti.

Sbeffeggiare i cornuti

Serafina imprecava contro gli uomini di mafia, sbeffeggiandoli e accusandoli di non avere onore, nel senso della coscienza umana, additandoli come cornuti, ma non perchè avessero subito un tradimento dalle loro donne che Fina precisava di non volere offendere.“Ci dissi a Totò levati la coppula di malandrino e mettiti un paru di corna ‘n tiesta che ti stannu cchiù megghiu”, parole pronunciate in aula contro uno dei boss che fece arrestare e riferite nell’intervista a TV Sette, 1967. Serafina, da donna di mafia diviene perciò una eroina, liberatrice del male mafioso, paragonata giustamente per tempra ed esempio alle figure di donne del Risorgimento siciliano, da Peppa la Cannoniera a Giuseppina Turrisi Colonna o Santa Miloro. Serafina comprende che la sua arma deve essere la Giustizia. Soltanto così potrà vendicare la morte del figlio, u picciliddu di 21 anni, cinque mesi meno tre giorni. Parte da Palermo la Battaglia di nome e di fatto.

Prima di entrare nel tribunale sputò per terra. Una, due, tre volte, fino a sentirsi la bocca pulita come dopo una sorsata d’acqua alla fontana, decisa a tirare fuori le parole più vere, più bianche, più suadenti.

Un teatro plateale

Donna Fina cerca, nelle aule del Palazzo di Giustizia, il giudice Cesare Terranova e comincia a fare nomi e a fare arrestare i capimafia di Alcamo, Vincenzo e Filippo Rimi, responsabili dell’assassinio del marito e del figlio e i boss di Palermo. Parte, accompagnata dai carabinieri, alla volta dei tribunali di Calabria, Puglia, a Perugia e a Roma. Ogni dibattimento era una botta di teatro, mostrava il fazzoletto col sangue del figlio, distribuiva sputi ai mafiosi, si genufletteva, dava borse in testa e proferiva epiteti ai boss, scherniti ed umiliati dalla forza dirompente di Serafina Battaglia, la vedova della lupara.

Fina lanciò la propria sfida con croci disegnate nell’aria, il fazzoletto col sangue di Totuccio sventolato come una bandiera, le genuflessioni davanti ai giudici, i giuramenti plateali sulla Bibbia e sull’anima del figlio.

Il 16 febbraio 1968 fu pronunciata la prima sentenza: ergastolo ai boss, responsabili dell’omicidio del marito e del figlio e del signor Rocco, la mano armata che sparò al suo picciliddu:

a te uomo di merda che hai bevuto il sangue di mio figlio, io qui davanti a Dio e davanti agli uomini, ti sputo in faccia.

Una giustizia relativa

Un anno dopo, la stessa condanna viene confermata dalla Corte di Assise d’Appello di Perugia, tre fine pena mai, per padre e figlio Rimi, i boss di Alcamo e per il signor Rocco. La vita della vedova si era ridotta alla solitudine della sua casa, dove aveva allestito un altarino con le fotografie dei suoi morti, presenze concrete della sua vita fatta di preghiere e soliloqui. Tuttavia, dieci anni dopo, nel 1979, nonostante la condanna esemplare, la Corte d’Assise d’Appello di Roma scarcera Filippo Rimi, in maniera incomprensibile, o per l’interessamento del noto e potente politico Giulio Andreotti, come accusa un pentito. Il padre Vincenzo era già morto per cause naturali nel 1975. Fu un duro colpo per Serafina Battaglia e per la Giustizia. Ma donna Fina lo sa che la giustizia degli uomini è relativa, infallibile è soltanto quella divina.

L’anno 1979 è un anno sciagurato. Il 26 gennaio era stato ucciso il giornalista Mario Francese che aveva dato voce al dolore e alla rivoluzione di Serafina Battaglia. Il 25 settembre viene assassinato il giudice Terranova che aveva ascoltato e creduto alle parole di Fina:“Però Giudice Terranova ce n’è uno solo sulla terra. Uno solo..”, come lo definiva la vedova e come dichiarò nella sua intervista.

La rivoluzione

La vita di Serafina Battaglia continua nella solitudine della fede e della presenza dei suoi morti, unici compagni, nella sua casa di Corso Olivuzza, nel buio della sua vita, con la sete di giustizia in parte negata, ma forte del coraggio che aveva avuto nel denuciare la mafia e i suoi uomini. Lo aveva dichiarato alla trasmissione Intervista alla vedova della lupara TV Sette, nel 1967, sulla rete nazionale

Però ho avuto coraggio, giuro su mio figlio. Accussì puru l’autri devono avere curaggiu.” […] “Serafina consegnò, ai giudici prima e ai siciliani poi, una prospettiva nuova[…..] Se una donna ignorante e sola, senza parenti a sostenerla, senza governanti a spalleggiarla, poteva dispensare offese e sputi, la civile società non aveva nulla da temere da una cricca di miserabili che non sapeva sudarsi il pane. Fu una rivoluzione quella di donna Fina, con “levati la coppola” come motto di scherno e lo sputo come affondo finale di disprezzo; una rivoluzione incompresa, poiché deragliata verso altri cliché, e pertanto dimenticata, da ricordare però come un’occasione perduta.

Serafina Battaglia muore a Palermo il 10 settembre 2004, lasciando un grande messaggio a tutti: la mafia si può sconfiggere, col coraggio di uomini e donne. Un libro potente, da leggere e rileggere, che rende immortale donna Fina, collaboratrice di giustizia ante litteram, che sputò ai mafiosi, assassini del figlio, sangu di vini.

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Un pensiero su “Schernire la mafia, Sabella racconta Serafina Battaglia

  1. Mirella dice:

    OUESTO grande fardello che è la MAFIA è spesso la donna di mafia a sostenerlo…Lotta con incredibile forza e coraggio per dire STOP ad un massacro che nn avrebbe fine. Sono temi delicatissimi che a mio avviso sono oggi trattati con più profondità dalla “penna DONNA.”. del procuratore Sabella. Sei Fantastica Mirella Mascellino !?!!perché sei una docente attenta ,instancabile e attivissima per il sociale e la divulgazione della verità con spiccato amore verso i giovani che ,grazie alla cultura, cambieranno il mondo attraverso la BELLEZZA .

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