Classici, gemme contemporanee uscite in sordina, titoli erroneamente considerati minori di grandissimi autori. Ecco i sette (con qualche licenza) consigli di lettura di Vito Di Battista, una delle rivelazioni dell’ultima stagione con “Il buon uso della distanza” (ne abbiamo scritto qui). Nuova puntata della nostra rubrica più amata (qui tutti i precedenti contributi)
“I miei uomini” di Victoria Kielland (Sellerio), traduzione di Andrea Romanzi
Caso letterario in decine di Paesi, tanto contagioso quanto improbabile (come spesso accade), I miei uomini è un’analisi impetuosa, profondamente lirica e priva di indulgenze della mente di Belle Gunness, ritenuta la prima serial killer donna della storia moderna. Emigrata negli Stati Uniti dalla Norvegia nel 1881, Belle ha ucciso più di quaranta uomini per poi svanire nel nulla. Fino a oggi.
“Il ragazzo persiano” di Mary Renault (Mondadori), traduzione di Bruno Oddera
Senza cadere in facili sensazionalismi (ma anche volendolo fare), resta il più impressionante e vivido romanzo su Alessandro Magno. Pubblicato nel 1972 e definito da Gore Vidal «una delle opere più originali del Ventesimo secolo», qui da noi è stato fuori catalogo per oltre un decennio fino a quando Mondadori ha deciso di riproporlo insieme ad altre opere di Renault. Scritto dalla prospettiva di Bagoa, l’eunuco “personale” di Alessandro, è in realtà il secondo volume di una trilogia che conta anche Fuoco dal cielo (il racconto dell’infanzia) e Giochi funerari (tutto ciò che seguì alla morte di Alessandro), entrambi tradotti da Maria Grazia Bosetti. Potrei cercare di barare un po’ e contarne tre come uno.
“Il volume del tempo” di Solvej Balle (NN), traduzione di Eva Kampmann
Pure in questo caso l’imbroglio è dietro l’angolo, ma essendo a tutti gli effetti una serie mi sento meno in colpa.
«Non mi aspetto più di svegliarmi al 19 novembre, e non ricordo più il 17 novembre come fosse ieri» dice Tara Selter, per la quale ogni mattina è sempre il 18, come se nell’arco di una notte fosse scivolata fuori dal tempo, o il tempo avesse smesso di scorrere (più o meno), e l’avesse fatto solo per lei (anche qui, più o meno).
Acuto e perturbante, filosofico, suggestivo, con un’intensità che cresce di libro in libro, l’opera di Balle rielabora un topos che forse si riteneva quasi svuotato, e lo fa andando oltre ogni barriera del genere letterario.
A inizio giugno NN Editore ha pubblicato il terzo volume, Gli altri, e crede così tanto in questa storia – in corso di traduzione in oltre venti lingue – da averle dedicato un formato e una grafica appositi.
“L’arpa d’erba” di Truman Capote (Garzanti), traduzione di Bruno Tasso
Imprescindibile, soprattutto per quel sicomoro su cui Collin, la zia Dolly e la domestica Catherine si rifugiano così da sfuggire al mondo e al compromesso che avanzano e si impongono, perché «se un mago volesse farmi un dono, dovrebbe darmi una bottiglia piena delle voci di quella cucina».
“Peter Pan” di James Matthew Barrie (Feltrinelli), traduzione di Patrizia Farese
Prima traduzione italiana dell’opera teatrale del 1904, antecedente ai romanzi (che non consiglio spudoratamente solo perché sto esagerando con gli imbrogli).
Se noi possiamo esistere, crescere, invecchiare e ricordare, è perché esiste Peter che non può crescere mai, che dimentica tutto del suo passato tranne Wendy, e che «suona e suona, fino a che noi non ci svegliamo».
“I profeti” di Robert Jones Jr. (Frassinelli), traduzione di Katia Bagnoli
Finalista al National Book Award for Fiction, è un debutto che da noi è passato abbastanza in sordina. Al centro, l’amore tra Isaiah e Samuel, due schiavi in una piantagione di cotone nell’America del Sud, che si tramuta in peccato solo quando il “Vangelo dell’uomo bianco” si insinua in questa comunità polifonica raccontata con una lingua sfolgorante, e anche l’ultima libertà rimasta inizia a disintegrarsi.
Ha la stessa potenza di La stanza di Giovanni di James Baldwin, ma ambientato cent’anni prima.
“Chiaro di donna” di Romain Gary (Casagrande), traduzione di Maurizia Balmelli
Quello che, a mio modesto avviso, è l’altro capolavoro di Gary dopo La vita davanti a sé. Un Le notti bianche ma tra le strade di Parigi, dove le vite di Michel e Lydia – due fuggiaschi a loro stessi, arrivati a un’età in cui si ama «troppo la pienezza per accontentarsi di leccare il piatto» – si scontrano per puro caso e si accompagnano per una notte soltanto. Lui è un uomo che non si sente ancora finito, perché «quando un uomo è finito, vuol dire soprattutto che va avanti». Lei è una donna che sorride poco, ma quando lo fa affiora «una vita completamente diversa». Sono due solitudini sull’orlo del baratro, che si incontrano troppo tardi e troppo presto. Che portano rispetto alla felicità perché conoscono il suo peso.
Gary ha saputo fare dell’ironia uno strumento di cultura, di malinconia, di sovversione e, in questo come altri casi, anche di estrema commozione.
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