Tra Balcani e Medioriente si snodano le peripezie di un reporter a caccia di un militare italiano disperso sul fronte albanese, durante la seconda guerra mondiale. Le ricerche lo porteranno dalla Grecia all’Egitto e dalla Palestina a Belgrado. “La fortezza del Kalimegdan” è probabilmente il più bel romanzo di Stefano Terra, scrittore ingiustamente dimenticato, una nuova riscoperta dopo la recente pubblicazione di un altro suo libro di successo, “Alessandra”
Nel 2018 Claudio Magris confessava di aver letto Le porte di ferro – pubblicato da Rizzoli nel 1979, vincitore del premio Viareggio 1980, e mai più ristampato – solo 32 anni dopo la morte del suo autore, Stefano Terra; una copia, con tanto di dedica di Terra, sepolta nella biblioteca di Magris, fra i tantissimi volumi ricevuti. Magris definisce Terra «un vero, forte scrittore», scrive del romanzo che ha nei Balcani il centro propulsore ed è una spy story, che paragona a quelle di le Carré, in cui «i personaggi, le trame, le ambiguità, gli ideali, i tradimenti degli individui, dei servizi segreti, degli Stati, delle forze politiche si inseriscono in una visione del mondo e dei modi di costruirne una migliore…».
Illustri ammiratori
Giornalista, poeta, narratore, uomo dall’esistenza romanzesca e nomade nonostante le fortissime radici torinesi, Stefano Terra, legato anche a Leone Ginzburg e Cesare Pavese in vita era tra gli scrittori più in vista, nonostante il carattere riservato e un sostanziale non allineamento (antifascista, anticomunista), vinceva premi ma, come tanti, è stato dimenticato, vittima, per usare le parole di Magris «del comune oblio che spesso caratterizza i primi anni o decenni dopo la morte di un autore e che ora inoltre è frutto di un Alzheimer generalizzato di cui soffrono, senza distinzione di età, la nostra epoca e la nostra cultura». Un paio di anni dopo Goffredo Fofi faceva un appello perché qualche editore (lui ci aveva provato in prima persona, ma invano) si facesse avanti per fare risorgere editorialmente Stefano Terra. A suggerirgli il suo nome era stata un’insospettabile ammiratrice – molto distante per temi e stile – ovvero Elsa Morante, che poteva accomunarsi all’autore piemontese solo per la singolarità e la libertà. L’anno scorso, per merito del marchio Gammarò di Oltre edizioni, e all’interessamento in prima persona dello scrittore Diego Zandel, è tornato in libreria Alessandra di Stefano Terra (ne abbiamo scritto qui), che aveva vinto il premio Campiello nel 1974. Zandel che aveva firmato la postfazione di Alessandra, adesso scrive l’introduzione a una nuova riscoperta di Terra, La fortezza del Kalimegdan (210 pagine, 18 euro), ancora per Oltre/Gammarò. Pubblicato nel 1956 da Bompiani, La fortezza del Kalimegdan è probabilmente il romanzo più riuscito dello scrittore torinese (all’anagrafe il suo vero nome era Giulio Tavernari), opera compiuta, affascinante, che ha la sua anima nel Mediterraneo, tra Balcani e Medio Oriente, luoghi amati, vissuti, interiorizzati, figli di un’attività giornalistica costante e appassionata.
Un giornalista vecchio stile sulle tracce di un fantasma…
Se Alessandra era sostanzialmente un (atipico) romanzo d’amore, La fortezza del Kalimegdan è un libro d’avventura (trasformato anche in film dal regista Jean-Marie Drot), il racconto di una scomparsa, quella di un militare italiano sul fronte albanese (lo stesso in cui combatté Terra), e di una ricerca, attraverso vari paesi, gli stessi che lo scrittore frequentò da soldato prima e da inviato poi. A compiere questa ricerca è un giornalista, Ferrero, che si mette sulle tracce di Giovanni Brua, sparito nel corso della seconda guerra mondiale. A richiedere il suo intervento è una sua amica di vecchia data la moglie di Giovanni, Anna. Ferrero è un cronista di altri tempi e si propone come inviato a un giornale romano, a cui dettare da lontano gli articoli (niente email, of course, ma pezzi che si passavano telefonicamente ai dimafonisti), mentre prova a raccogliere, in mezzo a qualche pericolo, tracce e indizi del passaggio di Giovanni Brua, antifascista e contrario alla guerra. Sa muoversi in mezzo ai rischi e in terre lontane dall’Italia. Il romanzo, viaggio fisico ma anche nella memoria, si snoda attraverso le peripezie del reporter, il racconto ha un punto di vista tutt’altro che algido, trasmette empatia. Ferrero giunge in Grecia, Egitto, Palestina e trova qualche testimonianza del suo passaggio, dialoga con qualcuno che l’ha incontrato, fino all’ultimo approdo, a Belgrado… Lì, con la fortezza turca del Kalimegdan sullo sfondo, in qualche modo si compie tutto, uno, se non due o ancor più destini.
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