Colpisce Enrico Macioci che non esita a rimettersi in gioco in un romanzo molto personale: quasi dieci anni fa si intitolava “Breve storia del mio talento”, adesso l’ha riscritto ed è diventato “L’estate breve”. L’amore perduto, come il calcio e un amico-avversario invincibile, e poi certe “vergogne” gli spalancheranno le porte al domani…
Un formidabile scrittore, un editore vero, e un libro che era già molto interessante in altra veste, in altra forma e con altro titolo, ma che adesso ha una marcia in più. Ci riferiamo a L’estate breve (125 pagine, 15 euro) di Enrico Macioci, classe 1975, pubblicato da TerraRossa edizioni, e che era apparso quasi dieci anni fa per Mondadori come Breve storia del mio talento. Macioci ha dimostrato più volte d’essere un autore fuori dal comune e lo fa anche stavolta, campione d’umiltà. accogliendo l’invito di Giovanni Turi, anima di TerraRossa, a rimettere mano al vecchio romanzo. Risultato? Una storia che resta dentro e che spazza qualsiasi dubbio su cosa sia diventare adulti: accettare le proprie fragilità, riconoscere i propri limiti, convivere con quello che non si sarà, non si potrà e non si avrà. Duro? Forse, ma dannatamente onesto. Se ci si mette alle spalle l’infanzia e l’adolescenza con questo atteggiamento, con questo stato d’animo – la perdita dello stupore, la scomparsa dell’ingenuità – in cambio c’è un premio più grande di qualsiasi altra cosa, la libertà.
Quelle aspettative non erano le nostre. Nessuna aspettativa ci appartiene tanto quanto noi non apparteniamo ad essa, e ciò che possiamo fare per difenderci dai suoi tentacoli è decidere di essere liberi – un atto interiore che richiede lo stesso esercizio e la stessa volontà che occorrono per diventare un bravo calciatore o un bravo scrittore.
Consapevolezze
Cosa comprende strada facendo il protagonista de L’estate breve? Che dovrà lasciare prima o poi il condominio Prato Verde, che la ragazza che ama, Miriam («in pochi mesi divenne una giovanissima donna, mentre io restavo un ragazzino»), mai si innamorerà di lui, e che non sarà mai un giocatore di calcio, sebbene prometta bene e abbia certi colpi nel suo repertorio: sulla sua strada però si staglia l’ombra di un ragazzino colombiano adottato da una coppia di italiani, un funambolo quattordicenne (di un anno più grande del protagonista), Miguel, diventato Michele. In qualsiasi frangente, sui campi spelacchiati, finisce sempre secondo dietro di lui. Questa è la storia di fine anni Ottanta che si legge nella prima parte del libro di Enrico Macioci. Un groppo in gola, e ancora più la seconda, in cui il protagonista, ormai scrittore discretamente affermato e con un matrimonio in crisi, torna ai luoghi della sua infanzia, di quell’estate in cui stava per tramontare l’adolescenza («l’età più misteriosa, è un buco che ti inghiotte per restituirti diverso») nel suo cuore.
Chiusura del cerchio
Le due faccende — la masturbazione e la scrittura, specie delle poesie — mi sembravano connesse, in parte persino coincidenti. Entrambe causavano vergogna, entrambe richiedevano isolamento, entrambe si nutrivano di fantasia.
Parallelamente alla crisi identitaria da aspirante calciatore, il protagonista del romanzo di Enrico Macioci fa i conti con i primi turbamenti di natura sessuale e con la “vergogna” di iniziare ad amare la scrittura, di cimentarsi con le parole, verso quello che sarà il suo vero futuro. È l’amico Giampaolo a pronosticargli quel che sarà e l’epilogo, le bellissime ultime pagine, in questo senso saranno una chiusura del cerchio.
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