Due commilitoni amanti e una lunghissima fuga nel secolo breve, dall’impero asburgico alla Cina. Sono i protagonisti de “Il mondo e tutto ciò che contiene” di Aleksandar Hemon. Pinto è un ebreo sefardita laico, ma che si fa tante domande su Dio e sull’anima. Osman è un musulmano carismatico e grande narratore di storie. Il sentimento e il sesso che li uniscono li tengono a galla, mentre si perdono, si ritrovano e si perdono ancora. Un’altra puntata della nostra rubrica Area 22 (qui tutte le altre)
Aleksandar Hemon assieme a Antonio Lobo Antunes e a Robert Schneider e ad Amitac Gosh (e a José saramago, ma quella è un’altra storia…) è uno di quegli scrittori usciti di scena dal catalogo Einaudi, che in un futuro remoto, magari remotissimo, lo Struzzo rimpiangerà. A occhio e croce le loro scommesse si saranno concluse per riscontri commerciali non soddisfacenti, ma tant’è. Si tratta però di tre fra i maggiori scrittori viventi. Beninteso, alla Einaudi sono bravissimi, hanno un catalogo di autori stranieri di prim’ordine, alcuni sono stati magnifici a imporli, già lanciati da altri editori italiani ma senza lasciare il segno, a cominciare da Philip Roth, Auster, Murakami, DeLillo, Cusk, o compresi dopo i successi sotto altre insegne, e strappati alla concorrenza, basta una manciata di nominativi: Neuman, Toews, Mendelsohn, Attenberg, Ta-Nehisi Coates…
Guerre e sradicamenti
Finita la premessa tecnico-editoriale, Aleksandar Hemon – nato a Sarajevo, ma da più di trent’anni residente negli Stati Uniti – è una leggenda vivente che ha scritto solo libri importanti (e qualche capolavoro, Il progetto Lazarus, Il libro delle mie vite, I miei genitori/Tutto questo non ti appartiene), alla cui lista si aggiunge il torrenziale e caleidoscopico Il mondo e tutto ciò che contiene (362 pagine, 20 euro), secondo suo titolo pubblicato da Crocetti editore e tradotto con maestria da Maurizia Balmelli. Hemon ha scritto l’ennesimo romanzo che fagocita dentro il lettore fino alla fine, notti insonni comprese. Lunga la gestazione dell’autore, una dozzina d’anni, lungo l’arco temporale che abbraccia, dal 1914 all’alba del ventunesimo secolo, dove a Gerusalemme si consuma l’epilogo del volume, che in realtà è una specie di avvio, perché l’autore lascia intendere di aver ricevuto in dono da un’anziana donna, Rachela, la storia divenuta poi Il mondo e tutto ciò che contiene. Inizia con la Grande Guerra, penetra il Novecento, narra principalmente di fughe e sradicamenti (temi ricorrenti nell’opera di Aleksandar Hemon) e s’arrende solo all’amore, l’amore che lega due uomini, due uomini che hanno attraversato a piedi il mondo, perdendosi, ritrovandosi, perdendosi ancora, l’ebreo sefardita Pinto – giovane farmacista a Sarajevo, alla vigilia della prima guerra mondiale – e il musulmano Osman, un amore travolgente, fisico e mentale, nato nelle trincee, un amore che è l’unica patria che sembra avere un senso per entrambi. Qualcosa di ancora più eccezionale, a guardarlo con gli occhi di chi è sopravvissuto alla seconda guerra mondiale (quasi nessun ebreo nella Sarajevo in cui divampò la prima miccia del primo conflitto mondiale) noi contemporanei offuscati da guerre e lotte fratricide, in cui non sembra esserci lontanamente posto per l’amore.
Solo l’amore fa sopravvivere
Mentre la folla è pronta ad accogliere l’arciduca Francesco Ferdinando, che di lì a poco morirà assassinato, Rafael Pinto, “kulu alegri”, reduce da studi e scorribande a Vienna, nella sua farmacia, anzi spezieria o apotheke, prova ad attirare l’attenzione di un ufficiale austriaco. Inizia così il romanzo di Aleksandar Hemon che ha il passo classico di un poema epico e la velocità delle storie proiettate nel futuro, un romanzo che trascina nel tempo, nello spazio, nella gioia e nei dolori, andata e ritorno. Lo fa dando vita all’amore di due commilitoni, Pinto e Osman, seguiti dalla Galizia degli anni Dieci alla Shangai degli anni Quaranta, passando per la Russia. E raccontando e facendoli raccontare in tante lingue, bosniaco, tedesco, russo, spagnolo, giudesmo (più noto come ladino), e non solo, fra curiosi idiomi ibridi e citazioni dal Talmud, chiamando la traduttrice a un’opera di grande valore e spessore. Per sopravvivere a distruzioni, sopraffazioni e orrori – e tantissimi ne vedono e ne vivono i due amanti protagonisti, che provano a tornare a Sarajevo, andando a… est, nella direzione opposta – è possibile aggrapparsi solo all’amore, sembrano assicurarci le pagine di Aleksandar Hemon, ispiratissimo nel mescolare fatti storici e immaginifica affabulazione («Il mondo è un universo di storie che possono solo continuare a iniziare e mai finire»), e nello scrivere episodi e capitoli che sono pura poesia, culminata nelle ultime pagine in cui la protagonista è Rachela, la figlia di Osman che Pinto alleva come sua. Un’altra storia nella storia, un’altra storia di amore e di tenebra.
La figlia d’anima
Adesso gli occhi di Padri erano chiusi, ma non come quando dormiva, piuttosto come se stesse per riaprirli e vederla. Gli accarezzò la cicatrice – conosceva quell’increspatura, la sua durezza, aveva la pelle fredda. Le sue labbra erano socchiuse come se si stesse preparando per un bacio. Ma non ne usciva alcun fiato.
Non l’ho amato abbastanza, disse Rachela. Ho sprecato la mia vita a non amarlo abbastanza.
Le vicissitudini personali dell’autore (che ha perso prematuramente una famiglia) presumibilmente contano parecchio, hanno un ruolo cruciale nello spiegare l’ulteriore bellezza della parte finale del libro, l’amore di un genitore che ha scelto d’essere tale, Pinto, un sentimento sconfinato e commovente. Stratificata e complessa è la figura di Pinto, ebreo laico comunque in bilico fra tradizione e modernità, comunque alle prese con detti rabbinici e con interrogativi su Dio e sull’anima. Non meno affascinante è il carismatico Osman, che racconta storie, incarna la gentilezza e il desiderio, in mezzo al boato delle armi, ad avventurieri e a rivoluzionari, tra montagne e deserti. Viaggiare assieme a loro è l’ennesimo dono di Aleksandar Hemon. Da non sprecare.
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