Anche questa volta c’entra un insetto, c’è qualcuno che si desta da un sonno notturno e da sogni agitati e… Già solo l’incipit del racconto di Simone Bachechi “La prova di Flavio” richiama quello celeberrimo de “La metamorfosi” di Franz Kafka. E, lungo le pagine, d’ambientazione contemporanea, riecheggia più di un omaggio alla vita e all’opera di Franz Kafka
Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Flavio Gregoretti sentì un gran prurito. Riuscì appena a stropicciare gli occhi che dovette mettere a fuoco quello che stava accadendo sul dorso della sua mano destra, al di sotto della congiunzione delle ossa del dito indice e medio. L’areola color malva di quella che doveva essere la puntura di un grande insetto gli stava dando la sensazione come di mille invisibili spilli che lo stessero trafiggendo, costringendolo a grattarsi furiosamente. Erano in realtà già due giorni che aveva quella leggera sensazione, ma sono cose alle quali non si dà mai un’importanza particolare, oppure si pensa si possano aggiustare da sole, fino a che queste non sbocciano totalmente nella loro maligna infiorescenza, come mostri tenuti sotto una lastra di ghiaccio, sotto una superficie spessa e avita dentro un involucro invalicabile, finché più potenti ragioni rivendicano costoro alla superficie. La sensazione era stata fino a quella mattina solo di un leggero fastidio che lui aveva imputato a un acaro impertinente che a contatto con la pelle gli potesse dare quel leggero prurito. Non era affiorata alla sua coscienza nei due giorni precedenti la necessità di indagare la sorgente di quel formicolio che quella mattina si palesò in tutta la sua virulenza.
Iniziò a grattarsi e subito la zona si arrossò. Gli sembrò che lì il suo derma diventasse cosa viva e parlante. Si creò un rilievo, quasi una curvatura, una gobba. Ne emerse un puntino scuro vagamente ammiccante, poi un altro, un altro e un altro ancora. Erano indubitabilmente i punti dove l’insetto, la bestia, la zanzara o chissà quale demone pizzicante aveva colpito, ben quattro volte.
Pensò che passando la mano sotto il rubinetto avrebbe risolto ogni problema. La sensazione dell’acqua sulla zona arrossata ebbe un effetto lenitivo istantaneo che ebbe del prodigioso. La sua illusione durò il tempo dell’asciugatura, quando sentì riemergere il prurito, ancora più vigoroso, ostinato e beffardo. Si guardò la mano: il gonfiore era ancora lì e sembrava osservarlo dalle spire velenose delle punture. Era il fastidio, la variabile fattoriale del disturbo di essere sulla terra, come ricordarci che le zanzare non hanno alcun scopo e funzionalità nella catena biologica se non quello di ricordarci quanto sia bello non averne intorno. Questi pensieri istantanei si sovrapposero allo strano gargarismo che Flavio emise, quasi a provare che la sua voce fosse ancora limpida e delicata, che non stesse verificandosi in lui un’angosciosa metamorfosi. Avrebbe cercato di non pensarci e si sarebbe recato al lavoro come sempre.
La sua giornata trascorse come al solito fra cedole e cartelle. Flavio lavorava al locale ufficio imposte. Il vantaggio di lavorare in un ente pubblico come quello era per Flavio il sapere che in ogni suo problema personale poteva mimetizzarsi, assumendo l’attitudine e l’aspetto del problema stesso, senza che nessuno potesse accorgersi di niente, assomigliando al luogo nel quale si trovava. Lui lavorava nella sezione archivio, ne era il responsabile e se ne stava praticamente isolato dal pubblico per gran parte della giornata. In dei cunicoli stetti, ombrosi e pareti ricoperte di faldoni, e classificatori universali dalle costole gigantesche legati con lo spago Flavio si adoperava inerpicandosi sovente su altissimi scalei per raggiungere i ripiani più ostici per disporre in rigoroso ordine le istanze, i reclami, le cartelle esattoriali inevase dei suoi concittadini. L’odore di polvere, carta, aria stagnante era attutito da dei diffusori automatici posti agli angoli della sala archivio dell’ufficio delle imposte, vera e propria bolgia dantesca, sala macchine e simulacro del bene pubblico del XXI secolo.
Anche lì dentro non aveva particolari confidenti e i suoi erano semplici rapporti fra colleghi, con la sola eccezione, almeno in parte, di Giulia, con la quale aveva avuto nei primi tempi della loro colleganza un’aspettativa che si tramutò ben presto in una solida amicizia e niente più. I suoi contatti sociali al di fuori dell’ambiente di lavoro si limitavano a un vecchio compagno di scuola, il Marani, con il quale andava a giocare a tennis una volta al mese e alcuni uomini della sua stessa risma, età e calvizie incombente, appartenenti come lui al club scacchistico, con i quali, oltre agli incontri al circolo del giovedì usciva saltuariamente per un cinema e una pizza. Il parentato era limitato a un suo cugino che viveva da naturista in una casa grotta sui monti a un’ora e mezza di auto e sua sorella con la quale non correva buon sangue e che vedeva o sentiva solo per le scadenze della casa della loro madre di ottantatre anni in preda all’Alzheimer da otto e assistita dalla badante rumena h 24.
Il prurito era sempre più fastidioso ma non pensò di chiedere consiglio a nessuno su cosa poter fare per attenuarlo. Andava in bagno ogni dieci minuti, passava la mano sotto l’acqua e per pochi minuti il sollievo gli faceva pensare che tutto sarebbe tornato come prima. Così non era, ma il sentimento di vergogna aveva il sopravvento su qualsiasi altra sua velleità di richiesta di aiuto a chiunque gli fosse vicino, per quanto tale concetto di prossimità a qualcuno fosse estraneo a Flavio, da sempre abituato a vivere in un quasi totale isolamento.
Soprattutto non ne avrebbe parlato a Caterina. Si frequentavano da due sole settimane, erano usciti due volte a cena assieme, niente di più per il momento. C’era una reciproca simpatia che Flavio si auspicava potesse trasformarsi in qualcosa di più. Alla sua “bella infermiera”, come Flavio l’aveva denominata abbozzandone una descrizione a Giulia, quasi a cercare di stabilire un’intimità che non esisteva e che forse non ci sarebbe mai stata, non avrebbe certo raccontato di quello strano imprevisto che gli era occorso. Avrebbe potuto pensare che fosse infetto o chissà che cosa. Certo era che avrebbe dovuto fare qualcosa e Giulia forse era l’unica persona che poteva dargli dei consigli. Ai suoi colleghi uomini non avrebbe detto niente. Lo avrebbero canzonato additandolo di una qualche malattia venerea o come se quelle punture fossero il risultato di quello che succede a uno che se ne sta tutte le sere davanti al PC in chissà quali smaneggiamenti libidinosi, già fonte di sicura cecità.
Continuò così, retrivo e illuso di poter migliorare le cose, a grattarsi per due giorni e due notti insonni, fino a che la sua mano sembrava ormai compromessa. Aveva assunto tonalità verdi-grigiastre che erano il risultato del virare del rossore e del gonfiore a ferite purulente dalle quali usciva del siero maleodorante. Fu questo precipitare della situazione che lo convinse a rivolgersi a Giulia. Lei gli suggerì di disinfettare la zona, isolarla con una garza, non grattarsi e andare prima possibile in farmacia per farsi prescrivere una crema. Così fece Flavio quella stessa sera, prima di rientrare a casa. Prese il tram alla fermata a pochi passi dall’ufficio che lo avrebbe riportato verso casa come sempre e valutò che scendendo due fermate dopo rispetto al suo solito tragitto si sarebbe ritrovato proprio di fronte alla farmacia. Attese in paziente coda e quando finalmente fu il suo turno, davanti alla farmacista era come se si sentisse un naufrago in salvo sulla terraferma. Flavio espose il suo problema alla farmacista, con enfasi, guardingo intorno a sé, per sincerarsi che nessuno lo stesse ascoltando. Confessò alla stupita ragazza, non dissimulando la sua sofferenza, che quel prurito gli faceva venire la voglia di sbranarsi. La ragazza ebbe un lieve fremito e digitò su una pulsantiera dei numeri che fecero atterrare da un tubo trasparente su una specie di insalatiera di plastica dietro di lei la sua crema della salvezza. La medicina arrivò via posta pneumatica fra le mani della ragazza: «la applichi due/tre volte al giorno e al bisogno sulla zona irritata» disse. Flavio se ne andò soddisfatto e non vedeva l’ora di essere a casa per applicare alla sua mano quella sostanza miracolosa. Aprì la scatola, ne trasse fuori il tubetto e cercò subito il bugiardino: “Punture di insetti, prurito o ustioni, infiammazioni della pelle, eczemi”, per tutto c’era una soluzione. Giulia e la farmacista erano state le sacerdotesse della sua espiazione. Cosa significava vivere da solo e non avere mai nessuno con cui confidarsi. “Spalmi uno strato sottile di crema sull’area malata, massaggiando leggermente… Attenzione: usi questo medicinale per brevi periodi di trattamento e non superi le dosi indicate senza il consiglio del medico”. Il suo medico era stato la farmacista, in subordine Giulia. Così fece e non superò le due/tre volte al giorno come prescriveva il bugiardino di quella pasta gelatinosa che creava sulla sua mano una pellicola traslucida dalla consistenza gommosa. Il prurito era attenuato da quella protezione. Trascorse una serata e una notte tranquilla. La mattina successiva pensò, visto che la situazione stava evolvendo al meglio, di chiamare Caterina per fissare un’uscita per una di quelle sere. Era una settimana che non si vedevano. Lei gli aveva spiegato sommariamente che era fuori città per un corso di aggiornamento relativo alle implicazioni giuridiche di un percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale, ma avrebbe dovuto essere stata di ritorno quella sera stessa.
Questo migliore proposito lo rimandò al giorno successivo, sicuro che tutto si sarebbe aggiustato, che qualcosa di bello ancora potesse accadere, che per qualche non stabilito motivo gli fosse dovuto. Quel giorno in ufficio parlò a Giulia della crema. Lei si mostrò soddisfatta e lo incoraggiò come si fa con i bambini, dandogli un buffetto sulla guancia. La sua giornata di lavoro trascorse come al solito fra incartamenti e cartelle negli stretti cunicoli scaffalati. Non chiamò Caterina nemmeno quella sera. Avrebbe dovuto presentarsi all’appuntamento ancora fasciato con la garza o con la patina di crema in bella vista sulla mano, dovendole dare delle spiegazioni per le quali ancora non si sentiva pronto. Fra queste sue incertezze si fece strada dentro di lui il pensiero che sotto la crema le punture fossero ancora lì come sempre, aggressive e minacciose, subdolamente nascoste sotto il velo dell’idrocortisone, che non se ne sarebbero mai andate. Il suo problema era non avere nessuno a cui confessarlo. Il Marani lo chiamò per la partita a tennis, ma Flavio cercò una scusa plausibile e si inventò che tutta la settimana in corso e quella successiva non gli sarebbe stato possibile perché doveva assistere sua madre a turno con sua sorella, perché la badante si era presa una settimana di ferie e sarebbe tornata a Chisinau.
Lo chiamò anche il Prezzolini, del gruppo degli scacchi, era per il sabato sera, per la solita pizza. Gli disse che ci sarebbero stati tutti: Il Vergani, Il Maciletti, Fausto lo spietato. Se fossero stati tutti d’accordo sarebbero andati prima al cinema estivo dove stavano dando una retrospettiva su un regista cinese delle nouvelle vague. Il Prezzolini domandò a Flavio il perché non si fosse fatto vedere al gruppo del giovedì al circolo. Tutti, al di là delle canzonature che rispecchiavano più che altro la cameratesca goliardia dei macilenti scapoli quarantenni, ambivano alla sua presenza. Era un bravo giocatore, quasi un modello per tutti loro, uno che con rara incisività riusciva a combinare l’ingegnosità alle ferree logiche che creano la verità del pensiero scacchistico. La sua assenza non passava inosservata alle riunioni settimanali e quando lui non c’era la stessa scacchiera di marocchino e la scatola con i pesanti pezzi da gioco sembravano reclamarlo con l’urgenza dei congiurati: il brutale potere della regina, i pedoni intelligenti, i cavalli caracollanti sembravano spazientiti nella fervida attesa che sapeva d’inganno. Sembrava che tutti lo cercassero, ma davvero per lui era troppo. L’unica cosa che lo interessava erano quelle punture e l’estrema sua angoscia era non poter essere franco e sincero con nessuno di loro.
Sentiva che si stava isolando di nuovo, per colpa di quelle punture, un po’ come aveva fatto durante tutta la sua vita, adesso ancor di più, proprio per quella cosa che gli era capitata, per lo stesso imbarazzo che ne scaturiva. Al lavoro iniziò a nascondere quella cosa di cui fino a pochi giorni prima sembrava andare fiero come un suo bizzarro ed eclettico segno particolare. Qualcuno dei colleghi avrebbe potuto accusarlo dopo tutti quei giorni e con la situazione della sua mano che non dava cenno di miglioramento, di aver le zecche a casa, così iniziò a portare un guanto di filo di Scozia alla mano destra, cosa che sembrava alludere a un tremendo mistero. La vista degli altri al lavoro era la cosa più temibile che le punture stesse. Avrebbe voluto parlarne ancora con Giulia di quella sua sensazione con il rischio di diventare patetico. Lei glielo aveva detto di non grattarsi, di tenere protetta la zona, almeno per un paio di giorni e poi vedere cosa sarebbe accaduto. Flavio invece non resisteva, convinto che quelle non gli avrebbero mai dato tregua. Si guardava di nuovo la ferita, come se dopo una notte senza averla osservata ne sentisse la mancanza. Ci aveva fatto l’abitudine, era diventata la sua sveglia mattutina e iniziava prima a massaggiarla, delicatamente, poi con crescente impeto fino a una vera furia distruttiva rinvigorendo ancora il bubbone marcescente e pulsante di rosso vivo che annullava i quattro distinti colpi inferti dalla speciosa belva creando un’unica massa infuocata.
Ormai il prurito sembrava essere diventato il suo tratto distintivo, una parte di sé che gli apparteneva totalmente, più intollerabile di un mal di denti. Non riusciva a spiegarsi perché fosse capitato proprio a lui, benché riconoscesse che questo fosse possibile. Gli veniva in mente un sillogismo dai tempi della scuola: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali quindi anche Caio è mortale. Gli pareva perfettamente lecito, ma solo in relazione a Caio, non di sé stesso. Certo, non si trattava di vita o di morte, ma solo di farsi passare quel tremendo prurito che in ogni caso iniziava a turbarlo con lui che pensava che non sarebbe più tornato come prima. Allo stesso tempo, come in un perverso sogno, provò a immaginare come sarebbe stata la sua vita senza di esso, felice in qualche modo che la sua guarigione potesse essere continuamente rimandata, fino ad arrivare a pensare che senza quella sua strana specie di malattia si sarebbe ammalato, desiderando allo stesso tempo la guarigione ardentemente, volendo vedere di nuovo Caterina, per provare a dare finalmente una svolta alla sua vita, dovendo per questo fare lo sforzo di non grattarsi come gli aveva detto Giulia e implicitamente la farmacista.
Trascorse i giorni successivi in questo limbo, senza alcun apparente miglioramento. La crema che applicava diligentemente sulla ferita leniva il prurito e la situazione sembrava lentamente migliorare, poi soprattutto a casa, da solo, spalmava via quella patina gelatinosa e le punture erano ancora lì che sembravano osservarlo e irriderlo. Nell’insieme la ferita aveva una vaga forma di s rovesciata, sembrava una costellazione. Cominciò a pensare che quei punti rossi fossero una proiezione della sua personalità, qualcosa che aveva a che fare con il suo subconscio, il modo di manifestarsi di un qualcosa di nascosto da sempre nel suo profondo, il tentativo di qualche strana entità di urlare, di esplodere e di dare una svolta alla sua esistenza, qualcosa a cui avrebbe dovuto necessariamente affezionarsi e della quale avrebbe inevitabilmente sentito la mancanza quando fosse sparita.
Continuò a recarsi al lavoro regolarmente. Con Giulia scambiava poche e rapide parole di convenienza. Una mattina lei gli chiese semplicemente come andava con il prurito e lui gli rispose poco convintamente che andava meglio, come se lei potesse non accorgersi della sua menzogna. Lo chiamò al cellulare quella sera, ma lui non rispose, nemmeno al suo messaggio nel quale gli domandava se andasse tutto bene. Era l’unica persona con la quale sembrava avere una sintonia, l’unica che sembrava curarsi di lui, capirlo, lui la ricacciò indietro. Anche al lavoro il giorno dopo si mostrò sfuggente e le disse scusandosi che non aveva risposto perché stava giocando a tennis con il Marani.
Avrebbe voluto rinchiudersi in casa, analizzando quale potesse essere stata la vera causa delle punture. Che fossero tarme dei libri? Che quelle bestie avessero infestato la scrivania e la sua piccola sala di lettura? una nemesi sotto forma di bacherozzi rossi, appuntiti e invisibili a occhio nudo? Lo tormentava soprattutto quella sensazione di acido che gli rimaneva sulla lingua quando sfiorava le ferite cercando di aspirarne il siero che vi si formava, quel senso di appiccicoso che gli impregnava tutto il fondo della mano, l’umido, il cappotto di un barbone, mezzi pubblici, olio da officina sulla mano, vivendo oramai con la reale prospettiva di diventare come uno di quei malati di peste che si vedono nei quadri del Seicento, tutti rinsecchiti e grigi. Continuava a esaminare quei punti come loro osservavano lui. Il loro centro aveva fatto delle pustole come piastrelle di ceramica dal color caramello della grandezza di una puntura di spillo. Pensò di rivolgersi a qualche specialista, ma rimandò sempre con il timore di essere arrivato ormai fuori tempo massimo e confidando ancora nella terapia con la crema, imponendosi di non grattarsi mai più. Forse sarebbe dovuto andare al pronto soccorso, ma aveva sempre posticipato quel proposito ritenendolo capzioso, inadeguato e frettoloso, vergognandosi di andare a intasare la sanità pubblica per una stupida puntura di insetto la cui gravità poteva essere solo la proiezione di qualche sua sordida paura. Avrebbe dovuto mantenere per gli altri quell’aspetto esteriore di una vita che avrebbe dovuto scorrere in modo piacevole e decoroso, come tutti, compiacenti, si erano sempre aspettati da lui. Sul lavoro soprattutto avrebbe dovuto continuare a fare come se niente fosse, per non essere d’intralcio, per non destare inutili preoccupazioni o speculazioni su possibili promozioni, avvicendamenti, rimpasti nella sezione archivio, quando lui invece avrebbe voluto urlare a tutti che stava per morire e nessuno sembrava farci caso, sollevati che fosse toccato a lui e non a loro, rendendogli tutto quanto ancora più penoso e ingiusto. Si sentiva come un esploratore del polo che si è perduto, non ha più la slitta e le renne, nessuno strumento di orientamento, lo ha colto la più tremenda delle tormente e non sente più il freddo e questo significa che ormai la fine è vicina.
Tutti i segnali convergevano verso quella che Flavio sentiva come una sentenza inappellabile. Anche la mano stava acquisendo una strana attitudine motoria e duttilità. Come se stringesse una spugna, le falangi si piegavano con una strana sensazione di gommosità.
Sapeva che temporeggiando ancora la situazione non sarebbe migliorata e gli sembrò di notare sul palmo della mano delle macchie rossastre comparire e scomparire con l’intermittenza di stimmate solo a lui destinate, agitandosi in notti inquiete fra fede e miscredenza, disprezzo e dubbio, relegandole a quello che dovevano essere considerate: mera finzione.
Ciononostante tutto intorno a lui gli sembrava che fosse cambiato. Le vetrine dei negozi erano tristi, gli alberi dei viali erano tristi, le persone sul tram erano tristi, Giulia era triste. Valutò come sarebbe stato il decorso di quella strana malattia e si vide bloccato nel letto, inerme, in posizione cadavere, a rischio decubito, mangiato dai ratti o da tutte quelle strane bestie che lo pizzicavano ovunque, sulle gambe, sulla schiena, all’inguine, sui piedi, alle orecchie, su tutto il corpo ormai contagiato completamente dalle quattro punture originali replicate ovunque per il suo furioso grattarsi, stillandogli via tutta la linfa vitale, rendendolo in pochi giorni un reperto fossile maleodorante. Cominciò a interpretare e distorcere i rumori della casa seguendo la deriva dei suoi deliri e paure in rotolamento di biglie di ferro, sfregamento di superfici metalliche, cicale che cantano fuori stagione. Quando finalmente si fosse rivolto a un medico già immaginava che all’ottimismo iniziale delle prime visite sarebbero subentrate le frasi di circostanza, gli sguardi obliqui, fino a che quello non avrebbe avuto nemmeno più una parola per lui, in un silenzio assordante e rivelatorio.
Per due giorni non si recò al lavoro. Incaricò Giulia di comunicare ai colleghi che si era preso due giorni di permessi retribuiti che aveva accumulato durante l’ultimo anno e che pensò un domani che lui non ci sarebbe più stato avrebbero fatto parte della contabilità extra-moenia dei mortali.
Gli parve persino brevemente di stare meglio sotto ogni punto di vista, ma ben presto a questa sua sensazione diede il significato del miglioramento prima del peggioramento definitivo, l’inganno, primo dio di questo mondo, e si chiedeva fino a che punto non sappiamo dove ci portano le cose.
Una volta sentì parlare di una guarigione di un suo lontano parente avvenuta grazie a un crocifisso. Basta, non aveva più tempo per perdersi in stupidaggini di questo tipo, come in quell’astruso concetto che se sei ritenuto pazzo ogni tua reazione sarà pensata come conferma alla loro asserzione, che se sei ritenuto pazzo lo diventerai. Aveva solo bisogno di liberarsi di qualcosa, una cosa che non riusciva a stabilire con esattezza, fiutando fra lui e la cosa che gli era accaduta come la presenza non meglio definita di una terza persona. Lui che fuor di metafora aveva sempre vissuto in punta di pelle, uno che non aveva fatto altro che vegliare sul proprio corpo e pedinare il sole si trovava ora afflitto da una cosa tanto grande da non potere ammettere: la sofferenza, la malattia, la morte, e sorrideva a fior di labbra fra sé domandandosi il perché, assaporando già una dolcissima nostalgia della vita, immaginando che ben presto avrebbe iniziato a bere quasi fino a diventare un vero alcolizzato. In ogni caso avrebbe appesantito il suo fegato che non ce l’avrebbe più fatta a smaltire tutta quella roba che mandava giù, forse sarebbe morto per quello. Sarebbe arrivato a non mangiare quasi più niente, iniziando velocemente a perdere peso e sentendo la sua pancia come se fosse piena di rane gracidanti che gli stessero divorando le budella. Nel deliquio della fase terminale gli sarebbe successa quella cosa che accade a chi viaggia in treno e che credendo di andare avanti invece va indietro, poi d’improvviso riconosce la giusta direzione.
Dall’altro lato provava una perversa attrazione per tutto questo: lo sgravarsi di ogni responsabilità, perché solo quello contava, i crediti inesigibili, sua madre e l’Alzheimer e non si trovava più una badante adatta.
In un mondo finalmente pacificato, cosa fra le cose avrebbe imparato a abbandonare sé stesso e vedere svolgersi tutto da un punto sovrastante, l’anima sua un tanto di vapore lassù in alto che cade come la pioggia e poi risale, il saliscendi del sole, uno yo-yo, tutte quelle piaghe purulente si sarebbero staccate da più parti, da dieci, da tutte. Avrebbero trovato una via di fuga su tutto il suo corpo dissolvendosi in un’omogenea scossa, un leggero fremito come un solletico prima di svanire. Avrebbe dimenticato, assolvendo e assolvendosi, partita patta, il saldo del dare e dell’avere, sgravato delle sue stesse imposte da onorare, avrebbe egli stesso condonato mancando all’archivio e al recapito delle cartelle inevase e delle tasse non pagate il giorno dopo e il giorno dopo ancora e così per sempre. Se ne sarebbe andato con l’ultimo pensiero del suo nome sbarrato su una casella dello stato civile e di quanto sia triste morire senza figli.
Il tram che passava davanti all’ufficio e con il quale tornava a casa ogni sera avrebbe continuato le sue corse alternando il passaggio ai venti e ai trentacinque di ogni ora nell’alternanza fra orario estivo e invernale, i suoi colleghi avrebbero scosso la testa alla notizia, Giulia avrebbe provato del sincero dolore, almeno nei primi tempi, Caterina si sarebbe fatta una vita, niente gli sarebbe sopravvissuto, come si confaceva a un individuo della sua mediocrità e sarebbe stato presto dimenticato da tutti, dimenticato da tutti alla svelta.