“Il cavaliere del secchio” di Franz Kafka, scomparso cento anni fa, è un enigmatico racconto che passa dal reale all’irreale e ha un ruolo fondamentale nel saggio sulla leggerezza delle “Lezioni americane” di Italo Calvino. È l’ennesimo tassello del boemo come scrittore classico e moderno…
«Chi come me a frequentare le armerie rinascimentali d’Occidente prova il giulivo distacco epico d’un lettore di poemi cavallereschi, per la prima volta pensa a questi oggetti non come a fantasiosi giocattoli ma in vista del messaggio che volevano trasmettere in situazione… Eppure so bene …che non è con la spada ma con la non-spada che si vince».
Così Italo Calvino commentava in La spada e le foglie (Collezione di sabbia, 1984) le impressioni suscitate in lui dalla vista delle armi e delle armature dell’antico Giappone esposte al Museo Nazionale di Tokyo, riconoscendo la propria prossimità a certe atmosfere letterarie e alle avventure fantastiche, già trasposte nella Trilogia degli Antenati (1952-59) ed esplorate nella edizione delle Fiabe italiane (1956); e raccogliendo frattanto suggestioni per irrorare e nutrire la creatività da scrittore e la riflessione da saggista.
Non sorprende dunque che al racconto Il cavaliere del secchio (1917) di Franz Kafka – edito da TopiPittori nella traduzione di Anita Raja – sia assegnato un ruolo esemplare nelle Lezioni Americane (1988), in cui la raffigurazione del protagonista in volo è chiamata a concludere il saggio sulla Leggerezza.
Epico vs prosaico
Certo, quella per l’epica era una passione per Calvino, ne racconta anche lui, e oltre ad Ariosto e Cervantes non potevano essergli estranee altre declinazioni della tradizione cavalleresca popolare, nel registro comico e surreale, in cui le virtù dei personaggi e l’audacia rocambolesca in scena erano un risultato ottenuto per rovesciamento delle convenzioni eroiche.
Così, ad esempio, accade ne La secchia rapita (1622) di Alessandro Tassoni, poema eroicomico, in cui non un tesoro regale, bensì un secchio di legno rubato da un pozzo diventava casus belli tra bolognesi e modenesi, responsabili dello scellerato trafugamento all’epoca dell’imperatore Federico II, ispirando la divertita serie di ottave sulle sorti dell’improbabile trofeo di guerra.
Nella struttura fiabesca scelta da Kafka, invece, la convenzione gioca tra l’eco epica del titolo che investe il protagonista, e la rappresentazione di personaggi fin troppo umani, poveri contro ricchi, secondo Calvino tratteggiata con verosimiglianza: «Il suo punto di partenza è evidentemente una situazione ben reale in quell’inverno di guerra, il più terribile per l’impero austriaco: la mancanza di carbone».
Ma è la resa visionaria e surreale della vicenda a caratterizzare il testo, a farne per Calvino un racconto particolarmente misterioso e ad attribuirgli l’esplicita connotazione kafkiana, che la letteratura e il pubblico riconoscono tutt’oggi all’opera dell’autore praghese.
Angoscia e inquietudine
Uscito di casa per procurarsi del carbone per la stufa, il narratore si ritrova in volo a cavallo del secchio portato con sé e invano prega il carbonaio di dargliene, con la promessa di pagarlo appena potrà. La moglie del commerciante ne ignora le suppliche e piuttosto lo allontana, cacciandolo via con il grembiule, come un insetto, facendo sollevare sempre più in alto il secchio e il suo cavaliere, oltre le Montagne di Ghiaccio.
Se dunque il raffronto tra la povertà di chi chiede per necessità, e l’avarizia di chi per egoismo non dà nulla, prova e sintesi di disuguaglianza sociale, è in generale un argomento comune alla narrativa, viceversa è riconducibile alla produzione di Kafka il tema dell’estraneità tra gli uomini e del singolo nei confronti della comunità, quando è ingabbiato in una situazione senza uscita, e ne deriva su di sé angoscia e inquietudine.
La trasposizione letteraria di questa condizione dell’essere umano in ogni tempo fa di Kafka, a cento anni dalla scomparsa, un autore classico – nella consolidata accezione calviniana, per cui “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” – e insieme moderno, tanto più perché la contestualizzazione della vicenda passa dal reale all’irreale.
Più abbozzato in questo racconto, tale aspetto raggiunge massima espressione nei romanzi – America (1911), Il processo (1925), Il castello (1926) – nella solitudine e nell’arrotamento del protagonista su di sé, intrappolato in un sistema burocratizzato, che privilegia una società anonima e priva di empatia, in cui la comunicazione è delegata a procedure automatizzate, e anticipa scenari sul futuro cui il presente somiglia già.
«Da cavaliere del secchio, la mano in alto sull’impugnatura, che è la briglia più semplice, scendo con difficoltà le curve della scala» – racconta Kafka, affidando lo sguardo del lettore alla fantasia – «quando però sono giù, il mio secchio allora sale splendido, splendido», quasi fosse possibile volare oltre le mura di casa, i confini della città, i limiti del mondo reale.
Ironia realistica e paradossale
La visionarietà onirica è anche il risultato della giustapposizione dei registri identitari dei personaggi: la coppia dei carbonai e il cavaliere sono in rapporto come la ricchezza contro la povertà, l’avarizia contro il bisogno, l’ottusità contro l’immaginazione.
E per ricavare tale effetto, l’autore ricorre a un’ironia realistica e insieme paradossale, in grado di fotografare un dettaglio – come il gesto buffo e ingrato con cui la carbonaia si sbarazza del protagonista, che invano ha sperato di essere accolto – secondo un’attitudine che in Kafka è quasi un sentimento, come l’introiezione di scrittura, narrazione e linguaggio.
Ne troviamo traccia nell’incubo di Gregor Samsa, risvegliatosi in un insetto (La metamorfosi, 1912), nell’innocenza dell’imputato Josef K., processato senza conoscere le accuse contestate (Il processo, 1925), nell’ansia dello scrittore per la risposta di Milena Jesenska alle sue prime lettere, durante il soggiorno meranese del 1920, e nel fervore con cui ipotizza che possa fargli visita: «Il silenzio …è indizio di condizioni di salute relativamente buone, le quali, si sa, trovano spesso la loro espressione nella ripugnanza a scrivere»; viceversa, qualora «sia giunto un periodo cattivo», valuti lei di cambiare aria in Boemia o altrove. «Forse Merano stessa andrebbe bene. La conosce?» (Lettere a Milena, 1954).
Quel vuoto…
L’enigma del racconto permane nella misteriosa soluzione del volo, che non è spiegabile – il secchio è un oggetto comune e sgraziato, privo di bellezza – né è spiegata dal cavaliere, povero persino per essere provvisto dei poteri magici delle fiabe; eppure si offre alle interpretazioni.
Che anche Kafka abbia voluto rappresentare il suo stesso distacco dalla quotidianità, il suo dissidio tra l’impiego borghese e le aspirazioni letterarie? Che abbia intuito nel volare in alto la via vittoriosa contro la frustrazione dei desideri, lo slancio gioioso, sincero e innocente delle creature volanti di Marc Chagall?
Calvino conclude che anche quel vuoto possa essere in assoluto la condizione della leggerezza: infatti il secchio pieno, carico in partenza di carbone o di ghiaccio all’arrivo sulle Montagne, non consentirebbe al cavaliere di volare.
«L’idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l’aiuto e anche l’egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, apre la via a riflessioni senza fine».
Al lettore, dunque, il compito di avventurarsi tra le pagine.
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