“Willy” di Israel Singer non aggiunge nulla alla grandezza dello scrittore yiddish ma la puntella, per l’armonia e la sapienza della prosa e per il valore universale. Racconta di Willy Robin, ebreo polacco che si è rifatto una vita negli Stati Uniti: al contemplazione e la spiritualità non fanno per lui, dedito alla campagna e ai lavori manuali. Finché in qualche modo il suo passato non gli torna addosso…
L’America come linea d’ombra. Era andata così per i fratelli Singer, prima Israel, poi Isaac. Ebrei in fuga da loro stessi e dal loro mondo. Ed era andata così in un romanzo pubblicato qualche tempo fa, da Adelphi, un “romanzo duro” di Georges Simenon, Delitto impunito (ne abbiamo scritto qui), in cui il protagonista era un altro ebreo, scappato in America, ma infine inseguito implacabilmente dal proprio passato, da quanto aveva seminato, soprattutto nel male. Un romanzo, quello di Simenon, diviso esattamente in due parti, un po’ come un gioiello di Israel Singer, tradotto dall’yiddish, con grande cura, da Enrico Bennella, e pubblicato da Giuntina. In Willy (145 pagine, 18 euro), racconto lungo che appartiene a una raccolta di Singer senior del 1937, il protagonista è per l’appunto Willy Robin che viene così ribattezzato a pagina 57. E che, a lungo sembra il perfetto prototipo di individuo statunitense produttivo, un uomo del fare, un goy contrapposto ai pii e contemplativi ebrei da cui discendeva, a cominciare dal padre, reb Hersh Rubin.
Non la Torah, ma la campagna
Da sempre la campagna e gli animali sono al centro della vita e degli interessi di Willy, alias Volf. Silenzioso, prestante, di non troppe pretese, la Torah è fuori dai suoi orizzonti, lo annoia, per la disperazione del precettore e dei familiari. Il padre approfittando degli anni di servizio militare del figlio, si sbarazza della fattoria di cui è maldestro proprietario, scatenando una reazione forse inimmaginabile. Volf si dilegua in fretta dai cari e dalla Polonia, all’orizzonte per lui c’è la vita all’altro capo del mondo, dove diventa Willy e dove fa in fretta a trovare la sua dimensione in un ambiente campestre, nell’America profonda. Barba rasata e abiti corti, più avanti Willy riaccoglierà i genitori Oltreoceano, vista la pessima aria che tira in Europa…
«Non permetterò che venga profanato lo Shabbat! Sono io il padre, qui!».
Con un senso pratico tutto femminile, la moglie lo richiamava alla realtà.
«Hersh,» gli mormorava «non è casa tua, siamo da nostro figlio».
Reb Hersch non voleva darle retta.
Diversità e origini
In forma decisamente più asciutta rispetto a certi suoi mastodontici capolavori (su tutti I fratelli Ashkenazi, ne abbiamo scritto qui), Israel Singer anche in questo lungo racconto non più inedito riflette sull’identità ebraica fra tradizione e cambiamento, sulla crisi e sulla scarsa tenuta dei legami familiari, sulla contrapposizione fra libertà e azione da una parte, precetti e dogmi dall’altra. Tanto più che la presenza del padre finirà per mettere in crisi certezze ed equilibri raggiunti faticosamente. Un piccolo affascinante libro che forse non aggiunge nulla alla grandezza di Israel Singer, ma la puntella, per l’armonia e la sapienza della prosa, per il valore universale, in quanto celebra la diversità, l’indole dissonante rispetto a quel che ci si aspetterebbe, ma anche l’irresistibile richiamo delle origini.
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