Un libro incantevole e tremendo, che resta addosso, “T” di Chetna Maroo. Un vedovo, dopo la morte della moglie, inizia le tre figlie allo squash, uno sport per attutire paure e solitudine, ma anche per fare i conti col dolore e con la disciplina. Con sussurri, pudore e parole misurate, e zero concessioni al patetico, il racconto in prima persona della figlia minore, un’inevitabile crescita
Parafrasando una vecchia canzone di Luca Carboni, il titolo di questo articolo potrebbe essere “il mio cuore fa squash” (titolista, perdonami se mi faccio gli affari tuoi…). Ma mi rendo conto che a qualcuno potrebbero correre brividi lungo la schiena. Non è semplice piazzare nel giro di meno di un anno, fra l’autunno e la primavera due romanzi del calibro di L’ultima cosa bella sulla faccia della terra di Michael Bible (ne abbiamo scritto qui) e di T (148 pagine, 18 euro) di Chetna Maroo, con la felice traduzione di Gioia Guerzoni. Il colpo è riuscito alla casa editrice Adelphi che, con l’angloindiana Chetna Maroo, rinverdisce più di una tradizione, dando voce a una giovanissima protagonista, Gopi, che racconta dall’interno, da un punto di vista unico, il dolore del vuoto, l’assenza, la perdita, attraverso i rimbalzi di una pallina sul campo di squash: «Eravamo in tre, tutte femmine. Alla morte di mamma io avevo undici anni, Khush tredici, Mona quindici».
Equilibrio e sensibilità
Quando lei era viva, appena facevamo qualcosa di sbagliato, i nostri parenti tiravano in ballo i suoi sentimenti, come se bastasse niente a ferirla. Ma non era così. Ormai non aveva più importanza. Adesso che mamma non c’era più, la nostra capacità di ferirla sembrava infinita.
Il luogo d’elezione di questo tremendo e incantevole libro, che per ritmo ed emozioni è un crescendo, è un campo da squash, che ha al suo centro proprio una T disegnata a terra, a Londra. Morta la madre delle tre sorelle, il vedovo, un elettricista indiano (“istigato” da Ranjan, moglie di suo fratello Pavan) ritiene che le figlie debbano impegnarsi in qualcosa che non le tenga semplicemente occupate ma da cui imparino anche disciplina ed equilibrio. Quel qualcosa è lo squash, che il padre stesso ha praticato da giovane. Qualcosa che non deve diventare un’ossessione, ma una piacevole comfort zone.
Nessuno può concentrarsi per te o avere paura di perdere al posto tuo. Ma a volte succede il contrario. In campo ti sembra di essere tutt’altro che solo
La pratica costante dello squash, in un circolo della periferia della capitale britannica, in qualche modo attutisce le paure e la solitudine delle sorelle – il romanzo in particolare mette in primo piano il punto di vista di Gopi – ma allo stesso tempo permette di fare affiorare il dolore con cui inevitabilmente fanno i conti. Tutto è scandito con pacatezza e sensibilità, senza toni sopra le righe, senza concessione alcuna al patetico.
Un ragazzo e un torneo
Come si ricostruisce quel che si spezza? È una delle cose che prova a mettere a fuoco T. Parole misurate e mai sovrabbondanti, tanto non detto, spesso contano più i pensieri e i gesti, conta tanto il pudore, i sussurri con cui la protagonista si racconta. La scrittura accuratissima di Chetna Maroo sa colpire nel segno con un’immersione totalizzante delle protagoniste nello squash, che finisce per coincidere con la vita. Gopi, la figlia minore, è quella che mostra maggiore attitudine per questo sport popolarissimo in India. È potente e veloce e il percorso che la conduce addirittura a mettersi in mostra in un torneo è foriero della prima cotta (per Ged,«aveva tredici anni, era taciturno e il suo vero nome era Gethen») e delle critiche della comunità d’origine (nonostante lei pensi di essere al riparo:«Nessuno avrebbe saputo che io e un ragazzo bianco facevamo sport insieme»), di un’inevitabile complicata crescita, fra tenacia e scoperta, di un padre da comprendere e da guardare con più umanità e intimità. Cercate questo volume nelle vostre librerie del cuore, vi resterà addosso.
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