Lunghi brani autobiografici puntellano otto ritratti impressionisti dalla prosa aulica ma asciutta, otto esistenze miserabili ai tempi dell’infanzia e della gioventù dell’autore. “Vite minuscole” di Pierre Michon è una raccolta di storie di emarginati, a cominciare dall’autore, scritte in un linguaggio elegante e inconfondibile
Il primo vagito di un maestro della letteratura europea risale esattamente a quarant’anni fa (anche se in Italia è stato tradotto solo nel 2016), un’opera adesso tornata nelle librerie in edizione tascabile. Splendida notizia, più persone potranno innamorarsene. Stiamo parlando del francese Pierre Michon, autore di culto, e del volume con cui si è rivelato; autore periodicamente accostato al Nobel: negli ultimi tre lustri la Francia ha festeggiato Le Clezio, Modiano ed Ernaux, ma Michon – che ha più di un’ascendenza borgesiana – non ha nulla da invidiare a nessuno dei tre connazionali…
Né idilli né denunce
Vite minuscole (204 pagine, 12 euro), nella complessa e straordinaria traduzione di Leopoldo Carra (che firma anche una breve nota conclusiva), è riproposto da Adelphi con gli onori che si rendono a un classico, nato dalle memorie d’infanzia di Michon, dalle dimenticate figure della regione rurale in cui lo scrittore nacque e crebbe, la Creuse. Destini non illustri, salvati, strappati al silenzio, in alcuni casi miserabili, umiliati e offesi, ma non per questo insignificanti, quelli ritratti da Pierre Michon: poveri, analfabeti, orfani, agricoltori assurgono alla gloria letteraria, ognuno per motivi diversi. Non ci sono idilli né denunce sociali, non c’è una ricostruzione fedele, semmai un nobile sentimento di memoria e alcune ipotesi, che animano le pagine di Vite minuscole, la principale ricchezza risiede nel lessico, nel linguaggio elegante e inconfondibile, eminentemente alto, che in qualche raro caso sfiora l’autocompiacimento, provocando, spiazzando, anche a suon di virtuosismi e frasi tutt’altro che semplici e dirette.
Il sentimento della memoria
Un romanzo mosaico di otto ritratti impressionisti dalla prosa aulica ma asciutta, in cui la Francia più profonda è, via via, inquadrata da voci e punti di vista ogni volta diversi, talvolta perfino meschini e sarcastici, temperati dalla genuinità del sentimento del ricordo. E poi lunghi brani autobiografici (la sorella morta da piccola, la madre abbandonata dal marito), in cui Michon inevitabilmente si racconta, anche nei fallimenti professionali, nei problemi economici, o nella dipendenza dall’alcol (come il nonno, come il padre assente, come lo stesso narratore). Ecco cosa dona la lettura di Vite minuscole. C’è, per esempio, il contadino che va via, per cercare fortuna in Africa, la tragica rivalità fra due fratelli, i Bakroot («rampolli dispersi di una specie di mistero medioevale, terrigno, insomma fiammingo»), e poi anche un sacerdote peccatore, già «giovane teologo dal brillante avvenire», infine «totalmente inetto ma innocuo», alle prese con quella che considera la peggiore delle sconfitte, essendo rovinosamente attempato. E poi c’è Michon, a lungo un escluso, un emarginato, riscattatosi, rinato come scrittore, e deciso a riscattare altri, quasi a erigere un memoriale ai poveri cristi, tra fughe e bassifondi, e all’epopea contadina.
Il senso del tragico
Esistenze minime, in cui è fortissimo il senso del tragico, capaci di diventare universali, questo è uno dei significati, ma non il solo, che affiora dal debutto di Pierre Michon. Tra innocenza perduta e strazio dell’anima. Tra ripetute allusioni letterarie (Faulkner, ad esempio) ed evocazioni più o meno esplicite, i bersagli di questo autore, che deve non poco all’esistenzialismo, sono l’oblio e la morte. Bersagli centrati
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