Laura Forti, rimontare l’anima come una bambola matrioska

Una grande storia ebraica, ma anche di «uno sfaldamento identitario ormai definitivo e inarrestabile». È “La figlia inutile” di Laura Forti, che torna indietro sulle tracce delle memorie familiari e in particolare della nonna materna, bimba cresciuta tra abbandoni e traumi, donna amata ma imperscrutabile. Un romanzo con un nume tutelare, Philip Roth

Abissi e cicatrici di una famiglia e di una donna. Nel quarto romanzo pubblicato in cinque anni, per due diverse case editrici, c’è l’urgenza di chiudere i conti con demoni, fantasmi e angeli custodi che Laura Forti ha trovato sul proprio cammino o. forse, sarebbe meglio dire dietro le spalle. A caccia di ricordi, documenti, cucendo le poche certezze con la benedetta immaginazione che è il combustibile del romanzesco. Può darsi è l’intercalare ricorrente.

… se siamo scrittori o artisti, cerchiamo di tornare laggiù, di colmare le crepe, le fratture, di far ripartire gli anni e i ricordi che sono stati risucchiati in un buco nero, inventando, facendo supposizioni, perché non abbiamo strumenti, solo la fantasia. Proviamo a metterci nei panni, nelle scarpe degli oppressi, a volte anche dei carnefici, incarnandoli noi stessi.Cerchiamo di percepire tutte le sfumature, gli odori dell’umanità, nel bene e nel male…

Schiantarsi il cuore

Come nelle precedenti prove narrative, leggere Laura Forti significa imbarcarsi in viaggi rocamboleschi, non semplicemente nello spazio, e prendersi il rischio di schiantarsi il cuore come l’autrice. E nella sua più recente epopea, affidata all’editore Guanda (dunque all’editor e scrittrice Federica Manzon), si viaggia assieme a una famiglia di esuli, ebrei russi, i Dresner, abituati a cadere e a rialzarsi nelle persecuzioni dei regimi totalitari del Novecento; e ci si imbatte in pogrom, espatri forzati, tombe brasiliane, balie francesi, esili cileni, depressioni bipolari, eterne irrisolte solitudini, traumi infantili, matrimoni infelici, domande senza risposte, promesse mantenute solo a metà. Su tutte quella che riguardava la fine delle ceneri di nonna Elena Dresner: cremata sì come aveva desiderato, ma finita in un angolo del cimitero ebraico, a tu per tu con le sepolture dei suicidi, e non sparse in un fiume, la Mosella…

Ebrei erranti

Mi scontro con una rappresentazione astratta e lontana, in parte incomprensibile. Tanti lati del carattere restano enigmatici, avverto il limite frustrante di non essere riuscita a capirla in pieno, di non aver potuto far parte del suo mondo interiore, di non aver fatto le domande giuste quando era viva.

La nonna materna Elena è il pezzo mancante dell’autobiografia letteraria che Laura Forti aveva già portata avanti ne L’acrobata (ne abbiamo scritto qui) e in Forse mio padre (ne abbiamo scritto qui), i suoi primi due romanzi pubblicati da Giuntina. È nonna Elena La figlia inutile (249 pagine, 19 euro) del titolo del nuovo volume di Laura Forti. La sua storia affonda in quella del padre Giulio, Szaja Zamwel, nato nella Polonia di fine Ottocento, e di sua moglie Rojza. Ebrei erranti dopo il violentissimo pogrom di Kishinev, segnati dalla morte del figlioletto primogenito, Israel, a cui non avevano sopperito le nascite di Pauline e di Elena. Quest’ultima, in particolare, lasciata a balia, piccolissima, a Nancy, in Francia e ricongiunta alla sua famiglia solo a otto anni. Una cesura netta e non ricucibile, uno strappo violento capace di segnare una vita intera, vissuta da donna indipendente e controcorrente.

Zero sconti e tanta schiettezza

La famiglia di Elena, in Italia, seppe farsi strada, ma le inquietudini e i dolori della piccola restarono intatti o, peggio, si accrebbero col passar del tempo.

Scrivo per liberarmi, per smontare e rimontare la mia anima, come una bambola matrioska.

Laura Forti sa scrivere con grande personalità e con totale sincerità del disagio, dei silenzi e delle contraddizioni della nonna, a cui si sente molto vicina per lo stesso bisogno d’amore, per i tanti sentimenti negati, per l’anima circospetta con cui entrambe si sporgono sul burrone della vita: da giovane Laura Forti trascorre molto tempo in compagnia della donna («ci eravamo viste e riconosciute. Perché io le volevo bene e lei a me»), ma senza intercettarne davvero i tormenti. La scrittrice fiorentina scandaglia cuori e alberi genealogici, senza fare sconti. In certi passaggi l’ispirazione è chiara, quel Philip Roth citato più volte nel testo e in un esergo. Niente paragoni, ma un comune senso per la schiettezza a ogni costo, per il pragmatismo. Si sottolineano, ad esempio, pregi e difetti del bisnonno, per esempio, che si considerava maxista, ma arrivò ai vertici di un istituto di credito e in ottimi rapporti con Mussolini, salvo fuggire in Cile dopo la promulgazione delle leggi razziali. Anche in questo caso lasciando Elena («la frivola, infantile Nora di una minuscola casa di bambola ebraica…».) al suo destino, moglie di Alfredo e madre di due figlie, Roberta e Wanda. Prima bimba ribelle, poi donna anticonfomista e autoritaria, costretta a occuparsi delle figlie da sola, dopo il 1943, col marito fuggito per mettersi in salvo…

Identità a pezzi, identità ricucita

È una grande storia ebraica La figlia inutile di Laura Forti, ma è ancora di più la storia di «uno sfaldamento identitario ormai definitivo e inarrestabile»: persecuzioni e sterminio, accompagnati da turbamenti, privazioni, condizionamenti sociali e politici, lungo tutto il Novecento e oltre, mettono a dura prova la religione e la cultura egli avi, il senso di identità di una famiglia a trazione femminile («Gli uomini sono tutti inaffidabili») e la stessa identità dell’autrice, narratrice, un’identità «ricucita».

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