Lara Fremder, vecchie fotografie e ferite troppo grandi

Nella vita quotidiana di una guida turistica gerosolimitana s’innesta la ricerca della verità sul passato della propria famiglia, segnato dalla Shoah, tra silenzi, omissioni e tragiche verità. È un bel debutto, quello nella narrativa, di Lara Fremder, autrice de “L’ordine apparente delle cose” 

«Ho scritto questa storia prima del 7 ottobre, prima che l’ordine apparente delle cose si disintegrasse lasciando ovunque dolore e macerie». Così Lara Fremder nell’occhiello al suo L’ordine apparente delle cose (161 pagine, 18 euro), per Gabriele Capelli editore, uscito qualche mese dopo la serie di attentati pianificata da Hamas in terra israeliana che ha dato il via alla sanguinosa risposta da parte dello stato ebraico verso i gruppi terroristici responsabili facendo decine di migliaia di vittime civili in terre da troppi anni in preda a un folle conflitto al quale non sembra esserci la parola fine, nonostante i vari periodi succedutisi nel tempo di calma “apparente”.

Gerusalemme

L’autrice che è al suo esordio narrativo (qui è possibile leggere le prime pagine del volume) è nata e vive a Milano, figlia di un ebreo polacco scampato allo sterminio, già sceneggiatrice di film per i quali ha ottenuto numerosi riconoscimenti e autrice di cortometraggi con il suo breve ma potente romanzo ci catapulta in una terra storicamente dilaniata da un sanguinoso conflitto: lo scenario è quello della Terra Santa e in particolare quello della Città Santa delle tre grandi religioni monoteiste. Gerusalemme è lo sfondo della storia personale (di una famiglia) e per esteso collettiva, di un popolo (quello ebraico) il cui passato emerge tramite la narrazione della protagonista. “Mi chiamo Rachele Zwillig, sono nata a Gerusalemme, ho quarantuno anni e faccio la guida turistica”. Questa la sua presentazione che è in pratica anche l’incipit di un romanzo nel quale non si può prescindere dalla forte connotazione fisica, storica e geografica dei luoghi della sua ambientazione, se infatti in alcune opere narrative l’attenzione è incentrata sui risvolti psicologici e l’evoluzione interna dei personaggi, tanto da poter far dimenticare o ritenere accessorio o superfluo lo sfondo, in questo caso lo scenario e la cornice del romanzo è quello che ne determina la sostanza e i contenuti che si legano armonicamente alla vicenda interiore della protagonista.

Fra turisti e sopravvissuti

Rachele lavora per un’agenzia di viaggi portando in giro all’interno delle mura di Gerusalemme verso i suoi luoghi simbolo turisti provenienti da ogni parte del mondo. Le può così capitare di imbattersi in un traduttore inglese recatosi in città per incontrare un famoso scrittore, con il quale nascerà un’ipotetica storia d’amore, in due anziani coreani, in una comitiva di giapponesi, in una famiglia di francesi a Gerusalemme solo di passaggio per recarsi sul Mar Morto. Rachele è miscredente, non ama definirsi ebrea,  beve Gin Tonic durante Shabbat e in alcuni casi si innamora dei suoi “turisti”. È una donna libera e intelligente alla ricerca di spiragli di luce sul proprio oscuro e doloroso passato familiare in quanto figlia di sopravvissuti alla Shoah. Il romanzo di Lara Fremder è anche una piccola guida alla Città Santa, in alcuni casi ironicamente banalizzata dagli stereotipi del turismo internazionale, una città nella quale «si mette tutto in disordine e poi tutto in ordine, un ordine apparente pronto per un nuovo disordine», con gli echi dell’annoso conflitto costantemente sullo sfondo. I brevi capitoli, in alcuni casi brevissimi hanno il sapore di una sentenza:

“c’è lavoro?”

“no”

“Posso star via due giorni?”

“Puoi”

“Pensi di farmi fuori Lebens?”

“Non ancora”

Un giallo dell’anima e le maschere

La loro alternanza tra il racconto della quotidiana attività di guida turistica di Rachele e quelli centrati sulla ricerca da parte della stessa della verità sul passato familiare che si rivelerà tragico come per tutti coloro che sono stati in qualche modo toccati dalla follia nazista e dall’Olocausto dà al romanzo un ritmo serrato e, nonostante uno stile strettamente paratattico, una tutta sua poeticità che emerge quando la protagonista si trova a fare i conti con il proprio vissuto familiare che lentamente affiora. Un vecchio quadro che la riporta all’infanzia porta Rachele ad affrontare quel passato, con la meticolosità raziocinante di un investigatore, creando quasi un giallo dell’anima e degli affetti, seguendo incerte tracce quali quelle di alcune foto da rimettere assieme come in una sequenza di eventi, cercando di rimettere a posto i pezzetti del suo passato e di cercare una qualche salvezza dai propri drammi interiori che sono inevitabilmente connessi a quelli familiari, con un padre per troppo tempo lontano e una madre morta suicida. Come farlo? Su sollecitazione della sua psichiatra Rachele prova a darsi una risposta: “come si smaltisce l’eternit, si smontano le lastre cercando di non romperle. Non si usano trapani o seghe elettriche. Il pericolo è la rottura capisce? I frammenti, le parti minuscole dell’insieme, quelle che si insinuano, che non vedi, che non senti ma sono già malattia. E poi ci vuole una tuta monouso, guanti, soprascarpe e una maschera”. E la psichiatra assente: “Se ci si vuole salvare la vita una maschera può essere necessaria”. La maschera che Rachele indossa è in fondo anche quella dell’occupazione che le dà da vivere, le bugie che racconta a piè sospinto ai turisti che porta in giro per Gerusalemme, perché “un uomo racconta delle bugie per nascondere qualcosa e non sa che le bugie stesse rivelano un’altra verità. La cruda verità, d’altra parte, alle volte può essere dannosa e di solito non porta nulla di buono”. Nel percorso interiore di Rachele, tra le bugie, i silenzi, le omissioni e le tragiche verità scoperte su una famiglia “in cui l’affetto era inesprimibile. Le ferite di tutti erano così grandi da non permettere né dolcezza, né sorriso. Tutto era trattenuto, controllato” vi sarà in ogni caso uno spazio di riconciliazione interiore e la possibilità di un nuovo inizio che non potrà essere che un perdersi piuttosto che un trovarsi, come può accadere negli stretti vicoli di Gerusalemme, perché “Quando avrete la sensazione di esservi ritrovati, guardandovi intorno vivrete un’inevitabile contraddizione: da un lato la realtà oggettiva con tutti i margini di errore, dall’altra la realtà unica, quella che siete voi a cogliere e che varia a seconda del sapere, del vissuto, dello stato emotivo”. Sarà bello perdersi anche con il bel romanzo di esordio di Lara Fremder.

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