William J. Locke, in cerca del senso delle umane cose…

Un viaggio in bici nell’entroterra francese si rivelerà per gli amici Martin e Corinna l’inizio di tante avventure e numerose svolte, tra logica, istinto e coraggio. Al centro de “L’anno portentoso” di William J. Locke l’idea che si possa sfuggire ad alienazione e infelicità e trovare la gioia nelle piccole cose piuttosto che nelle risposte ai piccoli interrogativi

La sfortuna di molti artisti non contemporanei ma noti ai giorni nostri, vuole che nell’epoca in cui vissero passarono per lo più inosservati o fecero comunque fatica a far apprezzare opere, che i posteri del mondo odierno hanno invece catalogato come capolavori. Con William J. Locke accade il fatto inverso. Di origine britannica, vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento ed inizi Novecento, fu autore molto prolifico ed alcuni dei suoi libri furono per ben cinque volte nella lista dei best seller negli Stati Uniti, 24 delle sue opere ebbero un adattamento cinematografico, mentre 4 raggiunsero i teatri di Broadway. Nel 1917 il suo The Red Planet fu il terzo libro più venduto dell’anno in America. La fortuna di William J. Locke non ha trovato però molto riscontro nell’ingrata epoca attuale, se non fosse per Atlantide Edizioni che ci regala l’unico titolo dell’autore attualmente tradotto in italiano: L’anno portentoso (352 pagine, 26 euro).

L’arrivo come punto di partenza

Martin e Corinna sono due amici molto diversi tra loro ma accomunati dall’insoddisfazione per l’andamento della loro vita attuale. Martin insegna stancamente francese in un college inglese di basso profilo. Dal temperamento mite e pacato, dotato di quell’aurea di imbranata educazione che, se da un lato riscontra inconsapevolmente simpatia, dall’altro gli impedisce di scuotersi dal torpore da cui è afflitto.

Corinna è una figura innovativa per l’epoca in cui vive, una donna che vuole emanciparsi e che, fiera della sua autodeterminazione, si allontana dalla famiglia conservatrice per trovare autonomamente la propria strada. Studia arte a Parigi, dove però le sue sconclusionate idee rivoluzionarie non riescono a trovare riscontro pratico nella vita reale, ma le induriscono il cuore rendendola cinica e sprezzante.

La salvifica svolta alle loro inquietudini risiede nella saggezza di Fortinbras, Mercante di Felicità. Irresistibile personaggio dall’ambigua identità che tutti noi, dopo averlo conosciuto attraverso queste pagine, vorremmo avere la fortuna di poter consultare almeno una vota nella vita affinché la sua sua bizzarra filosofia dal senso pratico trovi la soluzione per le nostre anime in pena.

Fortinbras identifica immediatamente di cosa hanno rispettivamente bisogno i due giovani: Martin è “un granello di polvere umana a caccia di un’anima” e ha bisogno di nutrire questo suo spirito assopito, mentre Corinna essendo assuefatta da quei preconcetti che si è quasi auto imposta per dispetto alla società, deve trovare un modo per realizzarsi entrando in contatto con le cose vere della vita.

La soluzione è un viaggio in bicicletta di trecento miglia con destinazione finale Brantôme, cittadina dell’entroterra francese dove saranno ospitati nel piccolo hotel gestito dal cognato e dalla figlia di Fortinbras stesso.

Ma il vero viaggio comincerà una volta arrivati a destinazione. Quelle trecento miglia si riveleranno in poco tempo essere niente di più che un “giretto in bicicletta” rispetto alle successive avventure che vivranno i protagonisti, Martin in special modo. Dopo essere arrivati a Brantôme, oggi soprannominata la Venezia del Périgord, si cambia spesso scenario ed ambientazione, passando persino per l’Egitto e l’Oriente. Si susseguono infatti numerose ed inaspettate svolte e conosciamo approfonditamente e intimamente diversi personaggi.

Attraverso una prosa raffinata ma mai boriosa, anzi spesso contaminata da una piccata ironia ad effetto, Locke ci conduce abilmente attraverso le varie evoluzione del racconto. E benché gli scenari siano molteplici e ampiamente differenti tra loro, l’autore riesce a trasportarci visivamente in ognuno di essi grazie all’impatto prodotto dalla nitidezza delle descrizioni, che hanno la forza di materializzarsi alla coscienza con l’esplosione di un immagine, dandoci l’impressione di star osservando un quadro.

Vecchio Mondo vs Nuovo Mondo

Quando la nostra vita stagna in un insoddisfacente ed inconcludente circolo vizioso di alienazione e infelicità, cosa mai può venire in soccorso per tirarci fuori dalle sabbie mobili in cui la nostra anima più si ribella più viene risucchiata? Dove possiamo ritrovare l’ago smarrito della bussola? Come ci si ricongiunge al nucleo delle cose, che spesso si perde nel caos della quotidianità e nelle frettolose necessità che siamo avvezzi adempiere come automi mossi dal bisogno e raramente dal desiderio?

Pensiamo sempre che le risposte a questi grandi ed eterni interrogativi che ci affliggono risiedano oltre i confini delle nostre piccole realtà immaginabili. Spesso si pensa che la propria realizzazione avvenga aprendosi ed offrendosi a contesti più ampi rispetto a quelli in cui siamo abituati a vivere, ed è fin là che vogliamo spingerci a cercare la felicità tanto ambita.

Quando siamo attanagliati nella morsa del dubbio, la realizzazione di avventura ci pare salvifica per lo scontento dell’anima. Ed a volte può esserlo, è vero, come è vero il contrario. Leggendo L’anno portentoso di William J. Locke si viene condotti attraverso i risvolti delle nostre scelte e si arriva a pensare che forse la vera felicità risiede realmente in quelle piccole cose che sfuggono alla nostra coscienza ottenebrata.

Sembra un concetto inflazionato e banale, ma nell’era moderna in cui viviamo ci viene quotidianamente inculcato il desiderio di cose di cui normalmente non avremmo reale necessità, e siamo assuefatti dal tentativo di raggiungere obiettivi effimeri e superflui, dimenticando i bisogni sostanziali in una sfrenata corsa verso ciò che sembra indispensabile ma non lo è. Nel ‘900, invece, il peso dell’essenziale aveva un valore differente. Nell’epoca delle due grandi guerre, l’uomo che si è trovato costretto a fronteggiarle e ne ha vissuto gli orrori, ne esce cambiato. Nel suo cuore sa riconoscere le cose importanti della vita senza l’appannaggio del desiderio, perché ha assaporato il rischio di vedersele portare via definitivamente. La letteratura di quegli anni è carica dei sentimenti nati nello spirito dell’uomo in conseguenza alla guerra, che ha inevitabilmente ristabilito una gerarchia di valori. Pensiamo per esempio a Maugham, di cui William J. Locke rievoca molto anche lo stile, i cui protagonisti sono spesso attanagliati da grandi dubbi morali, esistenziali e personali (vedi Il filo del rasoio o Il velo dipinto), e la svolta risolutiva trova spesso riscontro nel ritorno all’essenzialità. Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere ci mostra come un cane basi la sua gioia su ciò che l’uomo istintivamente quasi repelle, ovvero l’atto ripetitivo della quotidianità delle cose semplici:

Se Karenin fosse stato un essere umano e non un cane, di sicuro già da tempo avrebbe detto a Tereza: ‘Senti, non mi va più di portare in bocca ogni giorno un panino. Non puoi inventare qualcosa di nuovo?’.

In questa frase è contenuta tutta la condanna dell’uomo. Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. È per questo che l’uomo non può essere felice, perché la felicita è desiderio di ripetizione.

William J. Locke descrive a suo modo lo stesso concetto di insoddisfazione dell’uomo, mettendo in contrapposizione la vita del Vecchio Mondo, rappresentato dal microcosmo di Brantôme e dal suo intimo hotel, con la vita del Nuovo Mondo che è quello più effimero delle grandi realtà e della modernità.

Questo non è che un piccolo albergo di una piccola città, ma qui si può trovare tranquillità e gioia, e alla fine anche il senso delle cose, delle umane cose. Poiché io credo che dove gli esseri umani vivono, amano, soffrono e lottano, ci sia un significato eterno che va oltre i luoghi comuni, e se lo cogliamo, ci conduce alle radici della vita stessa, che è poi la felicità.

Consapevolezza e autenticità

Per quanto se ne parli, l’attuazione di scelte così importanti da determinare il corso di tutta la nostra esistenza, non può mai risolversi in un ragionamento semplicistico. E ciò vale anche per Martin, il quale, proprio come ognuno di noi, a volte si perde nel labirinto di scelte prodotte dall’incertezza e da desideri fuorvianti. Ogni decisione sembra essere quella giusta e decisiva, ed effettivamente lo è nello spazio del momento in cui viene presa, salvo poi cambiare nuovamente rotta per qualche imprevisto della vita.

È impossibile, dunque, orientarsi con la sola logica come guida, poiché è impossibile conoscere l’esito preventivo di una decisione. Come uscire allora da questo labirinto? Affidandosi all’istinto e tentando. Avendo sempre il coraggio di mettere alla prova le proprie idee con l’autenticità delle proprie scelte.

La vita che lo attendeva gli era molto più cara di qualsiasi altra avesse potuto scegliere. Perché non conta tanto il tipo di vita che si conduce, quanto la consapevolezza del modo perfetto in cui viverla.

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