È un romanzo sorprendente “Abu Avrahàm. Incontrarsi oltre la storia” (204 pagine, 16 euro) di Manuel Bonomo Morzenti, scrittore, giornalista e insegnante. Manuel Bonomo Morzenti racconta una storia che gli è stata “affidata” e che è diventata un libro grazie a Enrico Damiani editore e da oggi è in libreria. Ferite, abbandoni, silenzi e sotterfugi costellano la storia di due famiglie, palestinese e araba la prima, israeliana ed ebraica la seconda; ad abbattere il muro che le divide, avvelenato da una guerra perenne è senza fine, è una scoperta più forte di qualsiasi contrapposizione. C’è di mezzo un patriarca. Ecco l’anticipazione delle prime pagine…
«Madre, parlami di Abu Avrahàm…»
«No».
«Dimmi almeno del suo nome!»
«Figlio, il mio cuore è chiuso. E c’è una pietra su questa ferita».
***
Mi hai chiesto di partire da un aeroporto. Ma io avrei scelto altro. Quel tuo sogno ricorrente o le labbra serrate di tua madre o i passi rapidi di tuo nonno quella notte o la telefonata di tuo zio. Sarà invece come tu desideri, saranno quelle porte che si aprono nella sala arrivi dell’aeroporto il sipario di questa tua grande storia: sarà esattamente quel momento nel cuore dell’estate del 1993. Ma non ti accontenterò sul finale. Non penso proprio avrò la forza – né la volontà – di chiudere con un funerale. E considera pure questa affermazione come un tradimento. Però adesso guarda, le porte si aprono. L’angoscia che tu, tua madre, tuo fratello e tuo zio avete in corpo è senza fine: la paura di non riconoscerlo vi toglie il respiro e vi riempie di dolore. Ma bastano quelle lacrime che gli rigano il volto a farvi capire che è lui. È Avrahàm. E non assomiglia a vostro nonno Yussuf: lui è vostro nonno Yussuf.
Le domande ti sgorgano improvvise e più copiose delle lacrime di tutti voi messi assieme. Partono da lì e arrivano fino alla corsia dell’ospedale dove oggi sei primario. Perché una somiglianza così perfetta ti fa dimenticare tutto. Almeno per un istante, una manciata di minuti, qualche ora, un paio di giorni. Tutto coincide: l’altezza superiore alla media, la corporatura snella e la pelle lievemente olivastra, i tratti del volto affilati, le mani scarne mai ferme. Lo sguardo. Nero, penetrante, denso di allusioni e non detti. Ammaliante. E la parola: vi si rivolge in arabo perfetto e suadente, non in ebraico.
Per te, è un ricordo del nonno. Ma per zio Isma, è un’apparizione. È Yussuf. Gli è appena stata sbattuta in faccia la copia esatta di quel padre che vide per l’ultima volta quasi trent’anni fa, quando lasciò la Palestina. Quel padre che non rivide più nemmeno in occasione del suo funerale, quando gli fu negato il permesso di tornare a casa, in quella terra dal nome nuovo. Israele.
Tu sei giovane e puoi resistere, anche se inondato di emozioni. Ma per Isma è inevitabilmente troppo: eccolo che ti crolla davanti agli occhi.
CASA
Ogni estate, quando il dottor Sami Addin lascia la sua città nel Nord Italia e torna a casa per ritrovare mamma, papà, fratelli e parenti tutti, sa che il suo villaggio natale nel cuore della Palestina lo afferrerà e lo avvolgerà con un amore totalizzante, lo confonderà e gli strapperà la sua vita italiana per riportarlo a quando era bambino: ai vicoli, ai luoghi del gioco e della guerriglia, alle teglie di focaccia dolce al formaggio, alle caraffe d’acqua menta e limone, e a tutto ciò che si mangiava e beveva… senza manco sapere che cosa fosse l’epatite!
Nonostante sia un’isola nella Cisgiordania, immersa in un mare di strade e colonie israeliane, non è difficile arrivare al villaggio. Basta guidare dritto verso nord, percorrendo la Strada 60, quella che usano i coloni per raggiungere le proprie case: roccaforti nel deserto protette dal filo spinato, dai fucili e dalla stella di David a sventolare in un cielo blu che si pretende di possedere come soffitto di casa.
Be’er Sheva, Hebron, Gerusalemme e ancora più su. Non si trova traffico. In pochi chilometri si attraversa la storia di mezza umanità per poi arenarsi in un posto di blocco. Ma non è un problema entrare se sei un turista. È uscire. Il tempo si dilata e gli umori dei militari sono mutevoli: possono bastare un paio d’ore, come può volerci una notte intera.
La casa del dottore sta al di là del monte. La trovi appena uscito dal suk e dalla città vecchia, dove ti spaventi per la folla di corpi, di piedi e di veli, per la forza dei colori e l’invadenza degli odori, per il cielo che manca, per le troppe crepe nei muri, per i vicoli stretti e gli infiniti pertugi che temi potrebbero ingoiarti a ogni passo. E poi quei poster appesi ai muri che ti fanno raggelare: una lunga fila di ritratti di morti in battaglia. Li chiamano martiri, ma hanno un mitra fra le mani anziché una croce o una corona del rosario.
È il suo villaggio natale. E il dottor Sami Addin ama farlo conoscere agli amici italiani. Lì, oggi, suo padre Ahmed, reduce da un complicato intervento al cuore, passa le giornate seduto su un terrazzo a salutare e a sorridere alle vite altrui senza mai accendersi una sigaretta – fiero non fumatore in un mondo di ciminiere. Lì sua madre, Manal, si coccola i nipoti e riabbraccia il suo primogenito, già padre e primario nonostante la giovane età. Lì i suoi fratelli sono uno più in gamba dell’altro.
Tutto ritorna vivo. E Sami si rende conto che è venuto il tempo di raccontare: anche se gli si offuscano le idee ancora una volta, anche se non vuole problemi per nessuno, anche se non pretende di narrare una storia che sia solo la sua, anche se ha paura a chiamare in causa le vite di tanti.
Vuole raccontare. Perché deve levarsi di torno quel sogno ricorrente. Non esiste medico che possa curarlo: l’unica cura per uscirne è il racconto.
Il sogno era cominciato ai tempi della prima Intifada, quella delle pietre. Quella che ancora oggi Sami ritiene mossa da passione e da sentimento puro, priva di armi da fuoco e fatta, appunto, di pietre su pietre che volavano sull’occupante. Ci si voleva ribellare a un’ingiustizia in modo spontaneo, quasi primitivo. Tutto qua, pensa Sami. Aveva quindici anni e anche lui lanciava le pietre. Perché aveva le idee chiare: loro erano arabi palestinesi, gli altri erano ebrei israeliani. Loro erano le vittime, gli altri erano il nemico.
La prima Intifada cominciò proprio con il lancio di una pietra nel dicembre del 1987. Secondo qualcuno la pietra colpì la fiancata di una camionetta dell’esercito israeliano nel mezzo di un uliveto nei Territori palestinesi occupati, per altri andò invece a cozzare contro uno scudo anti-sommossa, secondo altri ancora sfiorò l’elmetto di un militare israeliano e finì accidentalmente per fracassare il vetro di una casa palestinese. Senz’altro, di pietre, ciascuna accompagnata dalla propria leggenda, ne seguirono molte altre. Una quantità infinita: si può dire che per un buon quinquennio ogni pietra che fosse delle giuste dimensioni per un lancio manuale – e in Palestina ce ne sono davvero tante sparse qua e là – sia volata per aria con tendenze minacciose almeno una volta. Soprattutto a partire dal momento in cui una pietra isolata si è trasformata in una protesta popolare, disorganizzata e confusa, ma estesa a ogni singola mano, appartenente perlopiù a ragazzini minorenni. Era la rivolta, la sollevazione. L’Intifada, appunto. 1993. I palestinesi contro Israele, in uno sfogo di rabbia che si sarebbe placato solo con gli Accordi di Oslo del 1993.
Al tempo, nonno Yussuf era morto da dieci anni oramai e per Sami contavano solo le pietre. Non voleva più saperne di quel soprannome del nonno: Abu Avrahàm. Aveva assillato i suoi genitori per anni, aveva cercato di scalfire in tutti i modi quel segreto, aveva gridato più volte la sua voglia di sapere: tutta la città sapeva, perché lui no? Con l’Intifada, però, cominciò a non importargliene più nulla, perché tutto ciò che era ebraico stava dalla parte del nemico. E quindi anche quel nome, Avrahàm. Prima Sami non poteva sapere: ora, invece, negava.
Però, il sogno. Ricorrente. Ogni volta che per le strade sentiva correre e sparare dei soldati israeliani che parlavano arabo, sapeva che l’incubo sarebbe tornato la notte stessa. Ma perché mai parlavano arabo? Le loro voci incrinarono le sue sicurezze: erano ebrei israeliani e dovevano parlare in ebraico, non l’arabo! Non la lingua di sua madre e suo padre… di suo nonno! Così, richiamato da quelle parole arabe sulle bocche sbagliate, quella visione notturna arrivava puntuale: un soldato israeliano entrava in una casa araba della città, sparava e uccideva tutti. Poi, tra lo strazio dei corpi crivellati dai proiettili e dei vetri infranti, vedeva una foto sul muro e riconosceva suo padre. Perché quel- la era la casa di suo padre. E i morti erano i suoi fratelli.
Sami negava qualcosa a sé stesso, qualcosa che tornava in un sogno che avrebbe potuto diventare reale nella sua città, tutti i giorni, più volte al giorno: un militare ebreo israeliano avrebbe veramente potuto ammazzare il padre o il nonno o i fratelli o i cugini senza rendersene conto.
Era troppo per Sami, come fu troppo per suo zio Isma quella mattina all’aeroporto di molti anni dopo. La cosa più semplice era non pensare. E continuare a negare.
Un lungo viaggio ha portato Sami alle porte di quell’aeroporto. Lo è stato per tutti. E sarebbe troppo facile ripercorrerlo in linea retta per approdare subito a quel volto ri- gato dalle lacrime apparso tra le porte scorrevoli di una sala arrivi. Vanno accettate le leggi del ricordo, le sfaccettature della memoria, il peso delle emozioni. E persino l’inganno dell’orientalismo. Bisogna dunque procedere lenti, come si fosse a dorso di cammello, su e giù per le colline pietrose che assediano la sua casa araba, inchiodati tra la luce bianca e il blu del cielo, accettando un ritmo – lontano dalla cronaca – intriso di terra e di polvere.
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