Daniele Mencarelli cambia passo dopo tre romanzi autobiografici e con “Fame d’aria” firma un libro politico e di denuncia. «Scrivendo di disabilità infantile non ci si può permettere la retorica facile – osserva nel corso della nostra videointervista – . L’Italia vive mille forme d’abbandono e, in tema di sanità, una condizione di disarmo assoluto, è diritto e dovere della letteratura raccontarlo. Non credo nella letteratura come forma di intrattenimento…».
Alle spalle l’autobiografismo romanzato dei primi tre libri di narrativa e la loro lingua eminentemente poetica – perché poeta nasce Daniele Mencarelli, che di recente è tornato in libreria con i versi di Degli amanti non degli eroi (ne abbiamo scritto qui) – e adesso un romanzo, Fame d’aria (ne abbiamo scritto qui), che affronta di petto la disabilità infantile, oggi in Italia, dal punto di vista di un padre, Pietro, che si occupa di un figlio autistico a basso funzionamento, Jacopo. «Il passaggio dalla prima alla terza persona – fa notare Mencarelli in questa videointervista – ha segnato anche l’ingresso dentro una storia che chiedeva una lingua ancora, se vogliamo, più asciutta, ancora più spogliata, scarnificata, perché quando si parla di disabilità soprattutto infantile Io credo che l’unica cosa che non possa permettersi uno scrittore è la retorica facile, l’eroismo che nasconde tutte le omissioni che ci sono in questo Paese, rispetto proprio al tema della disabilità infantile e io credo che ogni libro detti una lingua e lo scrittore che diventa maniera di se stesso e non piega il proprio stile rispetto alla storia che sta raccontando è un scrittore appunto che è diventato di maniera».
Fame d’aria (pubblicato da Mondadori) è un atto politico, è un romanzo di denuncia, che non fa sconti a nessuno, mai, e che in questi termini appare molto distante dalle precedenti prove di Daniele Mencarelli. «L’intenzione era quella di restituire tutta la brutalità da una parte e l’amore dall’altra, gli ossimori di queste famiglie che spesso non hanno aiuti dalle istituzioni. È un libro che traccia una distanza rispetto agli altri libri, anche con una rabbia sostanzialmente diversa». Ha girato tanto l’Italia, Mencarelli, per la promozione dei suoi primi romanzi, e ha conosciuto tante realtà in affanno e in difficoltà, spesso realtà legate alle tematiche sociali e assistenziali. «Questo è un paese – osserva Mencarelli – che vive, rispetto a certi temi, mille e mille forme d’abbandono e che, in tema di sanità, viva una condizione di disarmo assoluto, io credo che sia diritto e dovere della letteratura raccontarlo. Non credo nella letteratura come forma di intrattenimento io credo in una letteratura che, con gli strumenti della lingua e della letteratura, sappia fare quel lavoro di saldatura tra i temi del sempre e i temi del presente».
E poi c’è Dio, come spesso capita tra le pagine di Daniele Mencarelli, anche quando sembra che Dio non ci sia. Un Dio da maledire, se necessario, da interrogare, a cui chiedere conto e ragione di malattie e dolori, di ingiustizie. «Pietro non è diverso da un soldato in guerra. Nel Novecento, fra le due guerre, si diceva che l’ateismo non esistesse in guerra, perché un uomo provato è un uomo che semmai lancia una sfida a Dio, lo bestemmia, lo cerca per chiedergli ragione del proprio destino, è quello che vorrebbe fare Pietro in fondo».
E, infine, c’è l’amore, anche con certi suoi sinonimi, disponibilità, fatica, sacrificio. «L’amore – ammette Mencarelli – ha tanti sinonimi anche che apparentemente nulla hanno a che fare con l’amore stesso ma che invece c’entrano eccome, quando l’amore non è semplice retorica enfatica. Penso all’amore di chi vive da abbandonato dentro, in condizioni di grave disabilità…».