Dall’inizio del ventesimo secolo all’affermarsi del nazismo, una star letteraria dell’epoca come Stefan Zweig, campione di pacifismo e umanesimo, sembra pubblicamente tiepido sui temi dell’ebraismo e sulla lotta all’antisemitismo. Una buona selezione del suo epistolario, “Lettere sull’ebraismo”, dimostra ben altro coinvolgimento, lucidità, una visione cosmopolita e idee chiarissime
Ebreo, non sionista. Letterato, non politico. Star letteraria del primo Novecento, il più letto autore in lingua tedesca, oppresso dalla strapotere nazista in Europa e dalla Shoah, che non seppe rinunciare all’idea di farla finita, e la mise in atto poco più che sessantenne assieme alla seconda moglie, Charlotte Elizabeth Altmann, in Brasile, lontanissimo dalla sua amata Austria, nell’America Latina capolinea del suo estremo peregrinare, da ebreo errante. Stefan Zweig non si lasciò mai ammaliare dal sionismo, disinteressato al ritorno nella terra dei padri; a Gerusalemme volle solo affidare parte della sua corrispondenza, affinché fosse custodita, a riparo da occhi indiscreti, salvo poi finire per pentirsene.
Non un capopopolo, ma non apolitico
Fu accusato da Hannah Arendt di non essersi esposto particolarmente sul piano politico, contro l’antisemitismo e le persecuzioni degli ebrei. Presa di posizione troppo netta e critica, quella di Hannah Arendt, la cui conoscenza dell’opera dello scrittore viennese evidentemente non era così approfondita. Stefan Zweig era un grande scrittore, certamente non un capopopolo, ma un pacifista dedito all’umanesimo e al dialogo, dipingerlo come un intellettuale apolitico e insensibile però è una forzatura: gli strumenti del suo impegno erano i ferri del suo mestiere, la letteratura. Provò invano a dar vita a un fronte comune con altri intellettuali ebrei, specie quelli costretti in esilio, e soprattutto scrisse volumi inequivocabili, come Erasmo da Rotterdam o Castellio contro Calvino (ed è lui stesso a scriverlo) mettono in scena intellettuali ai tempi del fanatismo, che si oppongono alle dittature.
Sterminato epistolario
Strumento utilissimo per comprendere pienamente il pensiero di Stefan Zweig è una piccola ma molto significativa antologia, 120 lettere di cui la maggior parte inedite, del suo sterminato epistolario, pubblicata dalla casa editrice Giuntina; Lettere sull’ebraismo (351 pagine, 20 euro), il titolo del volume, curato dallo storico e archivista israelo-tedesco Stefan Litt e tradotto da Francesco Ferrari. Gli interlocutori dello scrittore austriaco era gente del calibro di Einstein e Freud, colleghi come Max Brod, Scholem Asch, Martin Buber, ma anche rabbini e lettori, magari aspiranti scrittori (come un certo Felix Rosenheim), a cui Zweig non mancava di dare consigli spassionati e onesti.
Sionismo? No, grazie
Dopo aver solcato il mondo per duemila anni con il nostro sangue e le nostre idee, non possiamo nuovamente limitarci, per diventare una nazioncina in un cantuccio arabo. Il nostro spirito è spirito del mondo – per questo siamo diventati quello che siamo, e se ne dobbiamo soffrire, questo è il nostro destino.
Lo sgretolarsi della sua Austria Felix, i roghi dei libri, l’interdizione da tutto quello che per lui era vita sotto il regime nazista, oltre a portarlo lontano dalla patria (la cultura e la lingua tedesca erano la sua patria), alimentò le sue riflessioni sulla catastrofe, riflessioni condotte con la convinzione d’essere sì ebreo, ma cosmopolita, cittadino di ogni continente. Era questa la chiave, non religiosa, né linguistica, né nazionalistica, cioè nessuna velleità sionista, sebbene avesse collaborato con Theodor Herzl («l’ho amato e venerato molto», scrive dopo aver appreso della sua morte) e non fosse indifferente a certe idee di Martin Buber. Per Zweig l’ebraismo è «un fatto di sentimento», è libertà, vocazione a esplorare il mondo, al massimo l’ebraismo è un soggetto letterario. Alla nazione preferisce la diaspora, che confessa d’amare.
La barbarie nazista problema di tutti
Se essere ebreo è una tragedia, così vogliamo viverla: essa sta al cospetto del mondo come la massima tragedia del grande poeta Dio, e io non mi vergogno di essere il suo attore, il suo interprete occasionale.
Rancori e rigurgiti antisemiti condizionano comunque l’esistenza di Stefan Zweig e dei suoi cari. Eppure lo scrittore, anche in questo caso, allarga lo sguardo, la barbarie, per quanto indirizzata agli ebrei, non deve essere combattuta come se fosse una loro esclusiva prerogativa. Non un semplice problema degli ebrei, insomma, ma molto più ampio, internazionale. «Gli altri – argomenta in una lettera – devono adesso farsi carico della nostra causa, perché è quella della libertà e dell’onore della parola». Lui, intanto, in privato capovolge l’immagine pubblica di autore defilato, appartato, tiepido; dà una mano ad alcuni perseguitati e rifugiati, cerca di promuovere un manifesto, sognando un «esercito dello spirito» con altri intellettuali ebrei. Una battaglia perduta. Come pure la sua «guerra» personale, culminata nel suicidio.
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