Si svolge nella principale isola di un arcipelago, in un mondo parallelo al nostro (che probabilmente è scomparso a seguito di un cataclisma) “Il traghettatore” di Justin Cronin, affascinante e oscura distopia che ha come protagonista una sorta di Caronte. Ricordi e misteri si infittiscono dando al romanzo un andamento da thriller, che è contemporaneamente un inno alla famiglia e un atto di fede nei confronti della letteratura
L’eterno fascino della distopia, mondi paralleli ai nostri, verosimili, nei quali vigono in fondo le stesse regole del nostro mondo (anche se dissimulate dietro diverse terminologie e occorrenze) quasi sempre dopo una qualche catastrofe più o meno esplicita o solo evocata, un genere che soprattutto negli ultimi anni è andato per la maggiore facendo la fortuna del mercato libraio che sonda con attenzione se e quando promuovere al meglio taluni romanzi e se questo genere sappia cogliere al meglio lo spirito dei tempi, basti pensare a 1984 di Orwell o a capolavori quali quelli di Bradbury in epoche relativamente lontane ma non così diverse dalle odierne, un genere che sarà sempre attuale perché dietro le inquietudini del tempo presente ci sarà sempre lo spazio immaginativo per poter pensare mondi diversi, opere che utilizzano spesso un linguaggio che è quello più convenzionale del nostro mondo quotidiano, senza aggiungere alcunché dal punto di vista stilistico a quella che è una narrazione di fatti comuni seppur trasfigurati, cosa che fa pensare che dal punto di vista letterario, se nella letteratura cerchiamo delle originali forme e una qualche lezione di stile, queste non possano essere considerate tali, ma la letteratura è molte cose, anche intrattenimento, visione e creazione di mondi alternativi, diverse possibilità e quindi anche distopia, e Zeitgeist o meno, appaiono regolarmente opere elogiate nientemeno che da maestri quali Stephen King, cosa che avviene da parte di uno dei più grandi maestri del thriller del resto anche in molte altre occasioni con la sua promozione di volumi di autori più o meno sconosciuti. Così avviene in qualche modo anche con Il traghettatore (qui è possibile leggere il prologo), per il quale il genio del thriller si è speso in oltremodo lusinghiere parole quali quelle che campeggiano nella copertina del volume di Justin Cronin edito da Fanucci uscito lo scorso febbraio: “Un romanzo in cui perdersi completamente”. Il traghettatore (520 pagine, 20 euro, traduzione di Eleonora Antonini) è la distopia di un autore, Justin Cronin, che vive in Texas dove insegna letteratura inglese, ed è già stato accostato ad autori quali Cormac McCarthy, Margaret Atwood, Michael Crichton e allo stesso Stephen King, oltre a essere stato insignito di un prestigioso riconoscimento quale il PEN/Hemingway Award, già ampiamente conosciuto del resto per la sua trilogia Il passaggio, il quale ha debuttato nel catalogo della casa editrice romana con l’ultima della serie dal titolo La Città degli specchi, alla quale seguiranno prossimamente i primi due volumi dai titoli, Il passaggio (appunto) e I dodici.
Una civiltà che somiglia alla nostra
Il titolo è essenziale e efficace, come in ogni thriller che si rispetti. Il traghettatore è il protagonista del romanzo-distopia di Cronin e il suo nome è Proctor Bennett. Vive e esercita la sua “professione” a Prospera, l’isola principale di un arcipelago tropicale dalle spiagge tipicamente bianchissime, in una civiltà che assomiglia altrettanto tipicamente alla nostra comunemente conosciuta e abitata.
Prospera è divisa da una barriera elettromagnetica dal mondo precedente, si suppone quello nostro, presumibilmente scomparso a seguito, come in tutte le distopie, di un altrettanto verosimile cataclisma causato da concomitanti cause quali guerre, migrazioni, catastrofi naturali, epidemie.
Il benessere generale a Prospera viene misurato tramite una sonda immessa nell’avambraccio, la quale trasmette dati e percentuali a un monitor al quale i prosperani sono collegati venendone scandagliati come avviene in una seduta endoscopica o in standardizzate analisi per misurarne il grado di benessere. Sotto il 10% questi vengono inviati alla Nursery, un’isola dell’arcipelago dove avviene il reset della memoria, come se quelli esseri fossero dei pc, come se la loro essenza fosse l’indice di gradimento e le recensioni a un prodotto o servizio comprato online.
Quello che traspare dalla descrizione di questo strano universo è una società paranoica con le medesime strutture di potere del “nostro mondo”, travestite sotto il nome di dipartimenti e ministeri governativi come i Contratti Sociali ove è impiegato il traghettatore. Proctor ha una famiglia, un impiego presso il fantomatico dipartimento governativo per il quale svolge il suo lavoro come una sorte di Caronte, trasportando verso la Nursery (ricettacolo della vita e della morte? purgatorio? paradiso? ma in realtà descritta come un resort di lusso) coloro il cui livello di benessere si sia abbassato troppo. Il suo lavoro è traghettatore, ma qualcosa non torna, a partire da quando si troverà ad accompagnare verso il fatale viaggio colui che sembra essere suo padre, anche se tale termine non è contemplato nel vocabolario di Prospera ove i figli lungi dall’avere dei genitori biologici vengono adottati ad estrazione e sono denominati pupilli, i padri tutori, in una società che viene descritta con l’utilizzo di termini artatamente tecnici e asettici che sono funzionali al disegno di quel mondo: concetti come convergenza, iterazione, (che sta per nascita e morte), deintegrazione, personale di supporto, l’Annesso fanno parte di quella terminologia tipica di ogni distopia o opera di fantascienza che si rispetti.
Realtà e sogni (che si rivelano menzogne)
In questo mondo parallelo nel quale in fondo vigono le stesse regole e usanze del “nostro mondo”, adulterio compreso, un’isola dove il processo di invecchiamento è lentissimo e dove quindi tutti saranno ultracentenari, ben presto i contorni e gli eventi si fanno misteriosi e convulsi, fanno la comparsa complotti e menzogne nelle quali sembrano coinvolti dall’inizio i genitori di Proctor, legati a un’associazione clandestina che trama una rivolta all’ordine costituito dei prosperani. La trama si infittisce in modo oscuro con continui capovolgimenti e sovrapposizione dei piani della realtà che si confonde con i sogni che sembrano essere materia proibita, sogni che per esteso rappresentano la letteratura stessa, personaggi che con il trascorrere delle pagine diventano sempre più sfuggenti e anch’essi paiono esseri immersi tutti quanti in un sogno, quello del Progettista, un mondo nel quale niente è ciò che sembra e dove quello che abbiamo scoperto fino a un certo punto insieme e grazie al suo protagonista (Proctor Bennett) si rivela nella sua essenza di menzogna. Presente e passato si confondono in un affiorare di ricordi e eventi misteriosi e angoscianti con uno svolgersi delle vicende in alcuni casi fin troppo sfilacciato. Una grande nave mistica sembra essere il fulcro simbolico del mistero, un dipinto, una rivolta strisciante, una ragazzina annegata (la quale si rivelerà essere la figlia di Proctor) sembrano essere i vari fulcri del mistero che si infittisce in un andamento da thriller che dà a Il traghettatore quella sua tipica aria da classico della fantascienza come suggerisce del resto l’esergo tratto da Il Progresso della poesia di Thomas Gray: “Superò i confini dello spazio e del tempo…” che ricorda il celebre passo di Blade Runner di Ridley Scott, film liberamente ispirato dal romanzo di Philip K. Dick: “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento al largo dei bastioni di Orione…” ecc…ecc…
Tra fantascienza e Shakespeare
Ma Il Traghettatore di Justin Cronin è anche altro, come suggerisce la dedica del volume, quel “Alle famiglie” ci dice Cronin, e in effetti lo svolgersi degli eventi negli esiti finali, al di là dell’ambientazione distopica e in parte alquanto inquietante è un inno ai legami familiari, oltre che una professione di fede nella letteratura che si esplicita nella confessione del protagonista stesso che assume le sembianze del Progettista, il deus ex-machina di questo marchingegno, un po’ un elogio di questa strana creazione letteraria sempre in bilico tra realtà e finzione, verità e menzogna, in ossequio al celebre assunto shakespeariano contenuto nella Tempesta, il dramma del Bardo citato in ben due occasioni nel romanzo: “Noi siamo fatti della sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo di un sogno è raccolta la nostra breve vita”, il miglior viatico teorico per arrivare a un finale convulso nel quale continui capovolgimenti e uno svolgersi degli eventi inaspettato, improvviso e nel quale la realtà si sovrappone ai sogni dei protagonisti tutto si confonde, lasciando aperti dubbi e enigmi sullo stesso reale svolgimento degli eventi narrati e/o sulla loro veridicità in un contesto nel quale verità e menzogna si escludono a vicenda. Una delle frasi dell’epilogo, giusto poche righe prima del punto finale dell’affascinante e oscuro romanzo di Justin Cronin lo esplicita al meglio: “Sembra proprio un sogno, pensa; un sogno perfetto, questa vita”.
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