L’invenzione narrativa innestata su un episodio storico per “La fabbrica delle ragazze” di Ilaria Rossetti, che si conferma per scrittura precisa e poetica. Un’operazione di memoria e dignità rievocare l’esplosione, nel 1918, di una fabbrica al servizio del conflitto bellico e le 59 vittime. Un’attenzione al passato che illumina il presente. E c’è un cameo di Hemingway…
È il 1918, la guerra è in corso da anni e non se ne intravede la fine. Siamo a Bollate, pianura lombarda: è lì che si trova la fabbrica di munizioni Sutter & Thévenot dove la ventenne Emilia, figlia dei contadini Martino e Teresa, va a lavorare ogni giorno in bicicletta per assemblare i rifornimenti che saranno inviati al fronte. Una giornata come tante altre apre La fabbrica delle ragazze (312 pagine, 19 euro), intenso romanzo di Ilaria Rossetti pubblicato da Bompiani. Ma quella di Emilia, la piscinìna di casa, non sarà una giornata come tutte le altre: da lì a poco lei e le altre ragazze che lavorano alla fabbrica assemblando spolette e sporcandosi le unghie di polvere da sparo e paraffina saranno uccise da una violentissima e dirompente esplosione.
Dalla realtà al romanzo
59 morti tra gli operai della fabbrica, la maggior parte dei quali ragazze giovanissime come Emilia. Vite stravolte da quello che è a tutti gli effetti un incidente sul lavoro, derubricato immediatamente dopo per dare alla fabbrica la possibilità di ripartire e ricominciare a rifornire la macchina della guerra. È un episodio vero, questo di Bollate: nell’approfondita nota dell’autrice a fine romanzo si trovano tutti i riferimenti al fatto di cronaca reale e la storia dell’appassionata ricerca condotta dalla stessa Rossetti (qui un articolo di consigli di lettura che ha scritto per il nostro sito) per saperne di più. Ecco perché questo romanzo è innanzitutto un’operazione di memoria e dignità: l’autrice dà spazio e nuova storia a quei morti, e a chi è rimasto, l’anima straziata da un dolore e da una pietà che legano tutto il romanzo. La fabbrica delle ragazze di Ilaria Rossetti è infatti, pur prendendo avvio da una storia vera, un’invenzione narrativa che, avviandosi dalla terribile esplosione della fabbrica, permette al lettore di indagare le volute degli animi incrostati di miseria, dolore e speranza dei genitori di Emilia. Da quella tremenda esplosione la storia prende il largo per spostarsi a svariati mesi dopo, dal giugno al novembre, il 3 novembre, alle soglie dell’armistizio. Da un lato c’è la giornata del padre, Martino, la sua navigazione sul Seveso tra illusioni e ricerca di una distensione, dall’altro c’è quella di Teresa, rabbia, voglia di rivendicare la propria voce, forze che mancano. E parole abbottonate e mute, che sembrano danzare intorno ai personaggi senza mai trovare l’ancoraggio di una reazione concreta: sono i pensieri dei sopravvissuti a una catastrofe.
Storie di chi resta
Se Martino e Teresa sono i punti di vista su cui, bilanciandosi tra due modi di osservare il mondo e reagire alla tragedia più grande – perdere un figlio – è costruita questa storia, la rosa di personaggi che intorno a queste due anime cuce l’ombra del dolore alla propria esistenza è molto più vasta e abbraccia tanti comprimari, dal farmacista al carabiniere, dalla proprietaria della latteria al disertore. Accanto al dramma intimo di Martino e Teresa, talmente fondo che non trova le parole se non nel silenzio consapevole della povertà e del senso di rassegnazione, ignorante di una grammatica degli affetti che guerra, povertà, privazioni e dolore non hanno mai permesso di imparare, Rossetti crea una galleria di umanità dolenti nelle proprie contraddizioni e nei sistemi tirati su per resistere. Sono le storie di chi è rimasto, sopravvissuto al fronte a costo di segreti miseri, fuggito inseguendo un sogno, trascinatosi nel riverbero di un’esplosione che non avrà mai giustizia. Nella resistenza alla scia di morte portata da una guerra che imperversa ormai da quattro anni, e di cui la fabbrica col suo mortifero incidente è un’emanazione agghiacciante, nessuno ha solo due dimensioni: i personaggi si gonfiano di nervature e drammi interiori accarezzati dallo sguardo di un’autrice che riesce a comporre la loro scacchiera senza mai giudicare nessuno, col registro e le parole dell’umana pietà.
La lingua della pianura
La fabbrica delle ragazze non avrebbe la sua forza intensissima se non fosse costruito con la lingua sempre intensa, precisa e insieme poetica che Ilaria Rossetti ricama addosso ai personaggi, indimenticabili esistenze esplorate nella ricerca di una sutura per una ferita troppo profonda e bruciante. È la lingua della pianura lombarda, venata di dialetto quel tanto che basta a illuminarla e dipingere gli sfondi paesaggistici a volte dolenti, specchio dell’animo dei personaggi, a volte così dolci da fornire una scappatoia consolatoria. Ma è anche una lingua precisa, iperrealistica nel fotografare l’orrore dell’esplosione e delle sue catastrofiche conseguenze sui corpi dilaniati, e su quelli, vivi, che restano e accorrono a fare la conta, a constatare la tragedia. La lingua vola sul paesaggio e porta la sua eco di poesia dolente a Martino, che coglie e non sa dare un nome, e poi preme sulle spalle di Teresa, rendendo limpida e poi insanguinata una realtà che sembra sfuggire alla comprensione. È proprio la lingua a costruire quella profondissima umanità che ogni personaggio di questa storia porta con sé sulla pagina: una parola fatta di esattezza e poesia, di immagini folgoranti, i cui debiti Ilaria Rossetti cita in appendice, di carezze che l’esplosione ha cancellato per sempre, sparsi qua e là, in dettagli apparentemente inutili che però costruiscono un tutto.
Il romanzo-testimonianza
Non è passato in silenzio totale, il tragico episodio della fabbrica: a parlarne, sconvolto probabilmente dai fatti, fu un giovane Ernest Hemingway che inserisce dei riferimenti al fatto nei Quarantanove racconti. Eccolo, messo in scena da Rossetti, sulla scena dell’esplosione: nel montaggio narrativo di questo romanzo, che dopo l’esplosione si proietta nello scavo di due esistenze parallele e poi ritorna a quelle macabre ore di sconvolgimento muto e compassione disperata, c’è anche il giovane scrittore impegnato con la Croce Rossa. Ancora una volta vero e romanzesco si intrecciano a restituire una storia che oggi, proprio grazie a questo romanzo, è di tutti. Un romanzo-testimonianza che fa onore a entrambi i termini della sua insolita definizione: splendido esempio di lingua che forgia una storia dando volti e tratti al dolore e alla pietà umana, ma anche mezzo attraverso il quale ricordare 59 vittime del lavoro sepolte dal chiasso della storia. Un libro prezioso che, come la buona letteratura, raccoglie una pagina di storia del secolo scorso per illuminare di interrogativi e consapevolezze il nostro presente.
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