Per tutta la vita recita una parte anticonformista e scorretta, Angela, madre di Antonio Franchini, autore de “Il fuoco che ti porti dentro”. E il figlio la odia e la celebra in modo spietato, rendendosi conto che comprendere lei significa in qualche modo capire se stesso…
Una Erinni sboccata, malpensante, rancorosa e vendicativa fa irruzione nella letteratura italiana. Disprezzo, maldicenza, foga, egoismo feroce, quando non odio seriale, sono le basi della sua grammatica personale e delle sue relazioni sentimentali. Solidarietà, amicizie e amori non appaiono nel suo orizzonte di madre e moglie e uno dei suoi figli, lo scrittore Antonio Franchini, le dedica un omaggio spietato, sprezzante, spudorato, come solo uno scrittore vero avrebbe potuto fare. Nelle ultime pagine si legge molto del senso ultimo del volume che ha scritto, e che è stato pubblicato, come la maggior parte dei suoi, da Marsilio: «Per me non è stata una scrittura liberatoria, non ho cercato nessuna resa dei conti postuma: non è leale battersi coi morti, si lotta contro i vivi, e noi da vivi ci siamo battuti a lungo. […] Scrivendo la sua storia ho reso onore al suo desiderio di recitare una parte anticonformista e scorretta».
Storia tragica ed esilarante
Non siamo nei territori di Un altare per la madre di Camon, né in quelli di Infelicità senza desideri di Handke, né in quelli di Dove lei non è di Barthes. Il fuoco che ti porti dentro (223 pagine, 18 euro) di Antonio Franchini si muove in tutt’altra direzione («La detesto da sempre», «Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo»), negli ultimi anni non si ricordano romanzi tanto tragici ed esilaranti al tempo stesso. Napoli, il Sud, l’Italia sono chiamati in causa da Franchini, che non sopporta la madre Angela Izzo, di origini sannite, «di razza sgherra», trapiantata a Napoli, e negli ultimi anni di vita trasferitasi a Milano, vicina di casa del figlio scrittore e direttore editoriale, prima di Mondadori, ora di Giunti-Bompiani: donna senza qualità, contraddittoria e incoerente, paladina della preziosa stasi dell’immobilità (soprannominata La Talpa «per questa volontà di starsene rintanata»), colma di atavici preconcetti (con nemici a portata di mano e non, come Angela Merkel, «che pare Hitler femmina»), di inflessibili guerre, dai vicini di casa al genero buddista, anche al sangue del suo sangue, a una sua figlia, ad esempio, la più mite e remissiva, sorella del narratore, vessata per una vita. Alla madre Franchini finisce per attribuire, simbolicamente, gli orrori di un popolo, di tutto il Sud, finendo per estenderlo all’Italia tutta: incarna i vizi peggiori, i limiti, le esuberanze balorde e le cieche spavalderie.
Un lungo duello
Franchini, con parole che per altri sarebbero ricercate, cuce assieme distanze, dissidi, duelli di decenni con Angela (che aveva già fatto capolino più di venti anni fa ne L’abusivo, forse il libro più noto di Franchini), ne rievoca e ricama monologhi incalzanti in napoletano che diventano smodati sproloqui scurrili, strabordanti di doppi sensi e imprecazioni, roba da mettersi a ridere senza freni ovunque stiate leggendo, a casa, su una panchina, su un treno. I poli della dialettica familiare, scanditi dall’irrefrenabile Angela, sono le urla e il silenzio («a casa mia non ci si confronta, si grida e si aggredisce, o si sta zitti»): è questa la banda d’oscillazione in cui il narratore prova a orientarsi, sciorinando aneddoti senza cali di tensione, facendo emergere di volta in volta, senza eufemismi, il livore, l’individualismo, la volgarità, l’illogicità della donna. Angela è sempre e comunque controcorrente, paladina di «verità brutali contro ogni sentimentalismo e ogni versione edulcorata della vita: lei e suo marito che si capiscono solo a tavola e a letto, i soldi che contavano più dell’amore, fare la zoccola che era meglio dell’essere onesta, tesi così». Il personaggio ha una centralità totale, ma non offusca una pletora di figure minori che sono nel cuore di chi narra.
La vergogna e una specie di amore
Eppure dietro l’invettiva che quasi mai si sopisce, l’avversione registra piccoli passaggi a vuoto, Franchini conclude che la madre ha recitato una parte ai limiti estremi, e riesce a rintracciare affinità fra loro («non è capace di parole, di gesti che manifestino i suoi sentimenti al di qua della loro affermazione. Alla fine la sua tragedia è questa, non essere capace di dimostrare l’amore. E forse è anche la mia»), a pescare esigui ricordi felici – i loro litigi come messinscene in cui finivano programmaticamente per mandarsi affanculo, una struggente gita in montagna, nonostante la neve poco abbondante – e una riflessione generazionale («Il carattere si forma per opposizione ai genitori e chissà se ai nostri figli, abituati a padri e madri comprensivi, disponibili al confronto e a non nascondere le proprie fragilità, non sarà mancato alla fine qualcosa, quel conflitto che li avrebbe resi più duri, più adatti all’esistenza»). La vergogna per quella madre alla lunga si carica di una specie d’amore, d’una forma di empatia. Non è una pace, è la comprensione, forse, anche della propria vita.
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