Stella Levi, una delle ultime sopravvissute della Shoah, si racconta allo scrittore Michael Frank in “Cento volte sabato”, libro frutto di colloqui andati avanti per sei anni. La testimonianza, intrisa allo stesso tempo di coraggio e pudore, non solo di quella macchina da annientamento che era il lager, ma della scomparsa, straordinaria, civiltà degli ebrei sefarditi dell’isola di Rodi, il luogo da cui tutto ebbe inizio. La storia anche di una rinascita personale, di una donna, oggi centenaria, che si considera ben più di una vittima. Una nuova puntata della nostra rubrica dedicata alla letteratura e alla cultura ebraica, Area 22 (qui tutte le puntate precedenti)
Va per i 101 anni Stella Levi, cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana, tra i promotori del Centro Primo Levi a New York, una degli ultimi sopravvissuti dei lager nazisti. Vive nella Grande Mela, elemento di spicco della comunità italiana, e porta nel cuore mezzo millennio di storia, quella degli ebrei sefarditi dell’isola di Rodi, eredi dei perseguitati alla fine del quindicesimo secolo nella penisola iberica, costretti alla fuga e dispersi per il Mediterraneo: rappresentante, Stella Levi, di una piccola parte dei 1.700 ebrei che nell’estate del 1944 furono deportati ad Auschwitz, via Atene, caricati in tre navi nl giro di sei ore. La piccola parte che non fu annientata nel campo di concentramento più tristemente noto.
Anni di dialoghi in italiano
Allora l’isola di Rodi era una colonia italiana e la lingua italiana, studiata e amata da Stella Levi, è un po’ la chiave di volta di un libro che non passa inosservato e si staglia su tanti altri. L’ha scritto l’americano Michael Frank, anche lui ebreo, raccoglie la voce e i ricordi di Stella Levi, specie quelli della sua infanzia e della sua adolescenza, vissute nel quartiere ebraico, la Juderia, uno scrigno di storie, usi e costumi, tradizioni ed espressioni. Il sabato, per cento settimane nel corso di sei anni, è stato un appuntamento fisso per Stella Levi e Michael Frank. I due hanno parlato in italiano, Frank ha lentamente conquistato la fiducia della donna, che ha però avuto bisogno di anni prima di confidare il dolore di Auschwitz: un racconto trasformato in un pugno di pagine nel cuore del volume, all’inizio della seconda metà. Un libro che non si può ignorare. È una conferma per l’autore di Cento volte sabato (248 pagine, 19,50 euro), edito da Einaudi, scritto in inglese, e tradotto in italiano da Marco Rossari. Michael Frank (qui una sua intervista dopo il debutto) dimostra che sa fare di tutto, come scrittore: in Italia (dove lui è di casa e trascorre parte dell’anno) l’abbiamo conosciuto prima come autore del memoir I formidabili Frank, poi è stata la volta del romanzo puro, Quello che manca, infine quella di una vita che non è la sua, con Cento volte sabato.
Gioie e umiliazioni
La Rodi in cui Stella Levi nasce e cresce, in una famiglia non ricca ma benestante, è un angolo di mondo lontano dall’Europa, una terra multietnica, di accoglienza e convivenza fra i popoli e le religioni. Era una dei sette figli di Yehuda e Miriam, Stella, figlia ambiziosa e sveglia, anticonformista e moderna, desiderosa di oltrepassare i confini immutabili della Juderia, sognando di frequentare l’università in Italia, tenendo pronta una valigia per l’eventualità, a soli quattordici anni. Ama quella piccola isola del Dodecaneso, vicina alle coste turche. La ama, ma le sta stretta. E per gran parte del tempo racconta di un mondo affascinante, di tanti ricordi felici, di amicizie, forse amori. Non considerandosi semplicemente una reduce della Shoah, ritenendo di avere tanto altro da tramandare. Fino al 1938, fino alla promulgazione delle leggi razziali, anche sotto la dominazione italiana la comunità ebraica aveva prosperato, percependo relativamente le nubi che oscuravano i cieli d’Europa. Tanti (specie delle famiglie più in vista) andavano via da Rodi, in Africa, nel nord e nel sud America, ma tanti restavano. Infine, prima lentamente, poi repentinamente il pericolo si moltiplica, le umiliazioni aumentano (su tutte per la “testimone” Stella Levi l’esclusione della scuola, che la portò a frequentare lezioni clandestine), fino a precipitare nella deportazione del luglio 1944 (quando avevano già perso tutto il Sud Italia), messa in atto dalle SS, grazie alla collaborazione degli italiani, in particolare dai carabinieri presenti sull’isola.
– Michael, stai guardando il passato con gli occhi di chi sa. Devi tenerlo a mente. Noi non sapevamo. Anche mentre salivamo a bordo della nave che ci stava portando via da Rodi, pensavamo: Mah, stiamo andando verso un’altra isola. Andremo in un campo di lavoro. Tutto questo è temporaneo. Torneremo, è sicuro.
La fine di un’epoca e di tante vite
Era, però, solo l’inizio di un viaggio infame, lunghissimo e per quasi tutti senza ritorno: della famiglia di Stella Levi si salvarono solo lei e sua sorella Renée. Un trasferimento in Germania che era il sipario su una civiltà straordinaria, arcaica e incantata, e su un pezzo di vita, o su tutta l’intera vita dei prigionieri – impegnati a trasportare mattoni da una parte all’altra, annientati – come si fa presto a capire da alcune delle parole di Stella Levi sul lager:
Non solo non ci fu mai un momento preciso in cui capii, ma non ci fu mai un momento, per lunghissimo tempo, in cui riuscii a concedermi, in cui nessuno di noi riuscì a concedersi, di provare qualcosa. Eravamo troppo prese a sopravvivere. […] Il campo era fuori dal mondo. Non era paragonabile a niente che avessimo mai provato prima. L’assurdo contagiava ogni particolare della vita. L’assurdo e il terrore. La morte era sempre lì, davanti e al centro della loro coscienza.
L’interrogativo senza risposta
Il vuoto dentro, la certezza di avere perso quasi tutti i familiari, l’impossibilità di cercare e trovare un senso e un futuro nella Juderia, condussero Stella Levi a immaginare la sua rinascita, forse la nascita in Italia, fra l’Emilia Romagna e la Toscana, forse perfino in un matrimonio, anche se poi la sua vita ha percorso altre strade, in America, dai parenti, dal fratello Morris mai conosciuto prima. Cento volte sabato è un libro di buio e luce, di passioni e di coraggio, di disperazione e di odio. L’odio dei tedeschi è una delle poche cose davvero incomprensibili per la narratrice che affida le sue parole a Michael Frank. L’interrogativo riecheggia, senza mai essere soddisfatto, in varie pagine, fino alla fine.
Mi chiedo il motivo, ma non ho risposta. Non lo trovi mai un motivo.
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