Una cittadina di minatori, una morte misteriosa, ambientazioni fiabesche. Ne “Il gatto d’argento” di Miklós György Száraz passato e presente si rincorrono, e gli elementi fiabeschi e leggendari si intrecciano con la storia ungherese
Cosa avranno mai in comune il realismo magico giapponese e quello ungherese?
A parte l’evidente propensione per i gatti in copertina, forse null’altro.
Ma se possiamo considerare Murakami tra i maggiori esponenti della letteratura onirica orientale, Miklós György Száraz si aggiudica a pieno titolo la nomina equivalente per la categoria scrittori ungheresi.
Cronache di una città fantasma
Il filo conduttore de Il gatto d’argento (305 pagine, 17 euro), romanzo di Száraz è la misteriosa morte di Jacobus Troll. Il mistero in realtà inizia già dalla sua vita: nessuno sa chi sia, da dove sia venuto e perché sia arrivato in quella città di minatori. Questo attira, molto tempo dopo il tragico episodio, la curiosità di un visitatore, anch’egli dall’identità ignota, che indaga e raccoglie informazioni sugli avvenimenti accaduti nel corso di quegli anni. Attraversando le nodose viuzze, osservati dagli alti campanili e dalle torri che ospitano i molteplici orologi, arriviamo alla locanda il “Gatto d’Argento”.
Quello era un vero covo di briganti. Rifugio di banditi, eretici, avvelenatori, assassini, mendicanti che avevano provato il ferro rovente, suore deviate, bari, alchimisti, studenti maghi, conti polacchi perseguitati, contessine lascive, mercenari italiani e valloni, meretrici hussite e studenti poeti sifilitici. A farla breve, era un luogo magnifico.
Qui è dove è stato rinvenuto il cadavere di Troll e dove convergono tutte le voci dei vari personaggi che, spinti dalla brama di raccontare ognuno il proprio punto di vista per far luce sui misteriosi avvenimenti, contribuiscono in realtà a gettare ancora più ombre, alimentando la curiosità e la confusione che aleggiano intorno alla figura di Troll. E alla città stessa.
È una città immobile e muta questa. Come un enorme fossile. Una vera città fantasma.
Le ambientazioni sono fiabesche. La cittadina è circondata da mura al di là delle quali si apre un vasto e verdeggiante scenario collinare, attraversato da fiumi sulle cui rive un tempo dimoravano i cercatori d’oro. Dove finisce la foresta si erge maestoso il monte Paradicsom con la sua fitta vegetazione di pini a sormontare e vegliare la città.
Negli edifici in pietra dalle volte nervate riecheggiano le antiche tradizioni, le storie di superstizione e i racconti sugli spiriti. Le logge dal pavimento in pietra rossa emanano il profumo dei frutti messi a seccare in settembre e quello delle castagne stese ad asciugare al sole di ottobre. I bambini giocano a nascondino tra i mastelli e le botti in cui fermenta il cavolo del giorno di San Giuda. I grossi muri dei corridoi delle case nascondono cunicoli spessi quattro piedi che i domestici un tempo attraversavano per rifornire di legna le stufe in maiolica di ogni stanza.
I personaggi sono degni abitanti di queste atmosfere. Tra i primissimi che incontriamo c’è András Kászonyi Kenyeres, il figlio dell’ultimo orologiaio. Curioso ometto panciuto, sempre alla ricerca nel suo taschino di qualcosa da sgranocchiare, che vive in una torre piena di orologi.
L’acchiappacani János Tarhás Fekete. Poco importa se i cani, più che prenderli, vadano da lui spontaneamente, consapevoli dei dolciumi che il buon uomo ha in serbo per loro.
Ci sono poi i misteriosi gemelli, soprannominati Cagnolinidigomma, che vivono nella radura dei boschi della valle di Szépasszony raccogliendo mirtilli e bacche di rosa canina da vendere al mercato.
E se si è affetti da malinconia, basterà portare un po’ di pan di serpe e di elleboro nero ad Erzsók, la strega buona della città, che con i suoi magici intrugli ha sempre un rimedio per tutto.
Tutto è il centro, l’inizio e la fine di tutto
Non lasciatevi ingannare dalla compattezza del libro, perché quelle 300 pagine richiedono tempo, concentrazione e un’attenta dedizione. La sensazione è che dietro ogni parola si celi qualcosa di più intimo, che veicola il messaggio attraverso una scrittura precisa che mira all’essenziale senza trascurare l’essenza.
La morte di Troll è il pretesto narrativo intorno al quale confluiscono le voci e le storie di questi e molti altri attori-protagonisti, dando vita ad un libro in cui passato e presente si rincorrono, e in cui gli elementi fiabeschi e leggendari si intrecciano con i molteplici accenni alla storia ungherese, di fatti realmente accaduti.
La trama assume un contorno quasi secondario e marginale, quando la vera sostanza è in tutto quello che c’è nel mezzo. Già dalle prime pagine il lettore è catapultato all’interno di un labirinto, dove viene preso per mano e guidato tra i cunicoli dai vari personaggi che si alternano nella narrazione. Ma nessuno di essi vorrà svelarvi più di quanto è necessario per condurvi verso l’uscita. Ognuno si limiterà a raccontare la sua storia e voi rimarrete fino all’ultima pagina intrappolati nel mezzo di quel labirinto generato da questi stessi racconti, che non si susseguono cronologicamente ma seguono un proprio flusso vitale e sono essi stessi il centro della storia in sé:
Perché ogni cosa è sempre il centro di qualcosa, anche se crediamo che si cominci dal margine o dalla fine. Consiglio di lanciarsi.
E se il lancio ancora vi spaventa non allarmatevi, la prefazione del romanzo di Száraz (tradotto da Alexandra Foresto e pubblicato dalle edizioni Anfora) di Claudio Morandini sarà un perfetto paracadute per il lettore ancora troppo avvezzo agli standard narrativi:
Non preoccuparti del plot, soprattutto. Abbandonati al piacere della conversazione che divaga fino a perdersi, poi torna a riprendere le fila e ricomincia, ma naufraga ancora perché chi racconta conosce storie troppo curiose e vorrebbe raccontarle tutte, passando dall’una all’altra, e in ogni storia vorrebbe soffermarsi su tutti i dettagli, perché non ce n’è uno che non sia bello e sarebbe un peccato rinunciare.
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