Elemento centrale in ambito scientifico e letterario, l’albero permette di rintracciare corrispondenze “sentimentali” in una sua comune esplorazione da parte del botanico Francis Hallè e di Italo Calvino: da un racconto di “Collezione di sabbia” dello scrittore a un successivo saggio dello studioso francese…
Testimone della disobbedienza di Adamo ed Eva nella Genesi, magnifica presenza nella mitologia – dall’ulivo alle origini di Atene e nel letto intagliato di Ulisse, all’alloro della metamorfosi di Dafne – selva di bosco del peregrinare dantesco e bosco di profezia in marcia contro Macbeth, l’albero è stato protagonista della personificazione in letteratura e fonte di prestiti lessicali per genetica, araldica, filologia, scienze e oltre. E se questa investitura di proiezioni esclusivamente umane fosse eccessiva ed errata?
Contro la tirannia dell’uomo
Il botanico francese e dendrologo Francis Hallè, professore emerito all’Università di Montpellier e insigne studioso dell’architettura di alberi e foreste, non ha dubbi e da tempo ha intrapreso una strenua crociata contro la tirannia dell’uomo, responsabile di inquinamento, deforestazione e depauperamento dell’ambiente, ma anche del saccheggio identitario in danno dei nostri «cugini verdi», in particolare, da parte di scrittori e artisti. Nel saggio del 2005 In difesa dell’albero (Nottetempo, 2022, trad. Anna Spadolini), Hallè circoscrive la definizione della pianta ai denominatori comuni – altezza, tronco, rami, longevità – e osserva che la sovraesposizione a servizio del codice comunicativo dell’uomo viola l’«alterità» dell’albero, ovvero la sua individualità precipua, «una delle risorse più preziose tra quelle che ci aiutano a vivere, in un mondo sommerso dall’umano». Infatti, non solo «l’albero non è appannaggio esclusivo di nessuno», profilandosi piuttosto come un patrimonio collettivo, ma addirittura «le parole di cui disponiamo non sono adatte a descrivere gli alberi», forse perché «i nostri antenati hanno al tempo stesso abbandonato il loro modo di vivere arboricolo e adottato la pratica di un linguaggio» o per «la deplorevole ignoranza in merito alle piante, dovuta alla scomparsa degli insegnamenti di una disciplina non immediatamente redditizia». E inadeguate sono anche le immagini, fotografiche o di altro tipo, che ne restituiscono una percezione solo parziale.
Persino gli scienziati, prosegue Hallè, si nascondono dietro la totale oggettività e fingono «di ignorare l’abisso che separa l’approccio scientifico dall’esperienza vissuta». Il tema ha ispirato anche la partecipazione del botanico alla mostra Trees (Parigi, 12.07.2019 – 05.01.2020), promossa dalla Fondazione Cartier per l’Arte Contemporanea, rimarcato nell’introduzione al suo contributo: «Mi chiedo se il nostro rapporto iniziale con gli alberi sia estetico piuttosto che scientifico. Quando incontriamo un bellissimo albero, è una cosa straordinaria».
Contro i letterati (tranne un paio…)
Nel saggio del 2005, la condanna più esecrabile colpisce poi scrittori e poeti, «ventriloqui» accusati di ricorrere alla mitologia, alla mistica, al simbolismo e all’antropomorfismo, ovvero all’attribuzione di parole, sembianze e sentimenti umani, che Hallè rifiuta – «perché impedisce lo stupore davanti all’enigma dell’albero e proibisce di penetrarne i segreti» – in favore della «prospettiva etnobotanica» e dell’esplorazione della relazione con l’uomo. Della folta schiera dei letterati d’ogni tempo, lo studioso raccoglie positivamente solo le esperienze del poeta Paul Valery (1871-1945), per avere «capito ed espresso ben prima dei botanici i legami che uniscono gli alberi e il tempo» nel suo Dialogo dell’albero (1925); e dello scrittore John Fowles (1926-2005), di cui condivide «l’impotenza strutturale» della descrizione sensuale dei boschi: «In nessun altro luogo …la parola e la macchina da presa sono altrettanto smarriti, incapaci di catturare il suono (o l’assenza di suono), i profumi, le temperature, gli umori, la visione d’insieme, i differenti livelli dell’essere nell’ascesa dal suolo agli alberi (…). Come il mare, se ne può catturare soltanto l’apparenza, un barlume sfuggente» (J. Fowles, L’albero, 1979). In generale, l’approccio empirico di Hallè si rivolge all’intera specie arborea, tuttavia non mancano eccezioni per gli «alberi sorprendenti», quali il Castagno dei Cento Cavalli sull’Etna, con oltre 2.000 anni d’età, 22 metri d’altezza e 22 metri di perimetro, riconosciuto tra i più grandi e antichi d’Europa; e l’Albero del Tule in Messico, con circa 1.500 anni d’età, 35,40 metri d’altezza e 36,20 metri di perimetro, monumentale esemplare della famiglia delle Cupressacee (Taxodium mucronatum o cipresso di Montezuma).
Una curiosa coincidenza
Ebbene, pur apprezzando la posizione autonomista di Hallè contro la tradizione e la cultura più segnatamente umane, la sua riflessione sul gigante verde messicano incontra una analogia sentimentale nell’arte, e una curiosa coincidenza espressiva in letteratura. Delle due, la prima è sublimata nella pittura di Vincent Van Gogh (1853-1890), nel ruolo consolatorio dei cipressi battuti dal vento del Mistral, tratteggiati come oscure fiamme ardenti della sua stessa inquietudine. L’altra riconduce a Italo Calvino (1923-1985), alla comune esplorazione della vita sugli alberi, fantastica e favolosa per lo scrittore, più realistica per il botanico, a bordo di laboratori mobili sospesi a un dirigibile per studiare le foreste tropicali, e raccontata nel documentario Il était une forêt (2013); e soprattutto al racconto di viaggio La forma dell’albero, ispirato dalla visita dell’Albero del Tule nel 1976 e pubblicato nella raccolta Collezione di sabbia (Mondadori, 1984).
Spalle al regno vegetale, eppure…
Di Calvino è stato celebrato nel 2023 il centenario dalla nascita, con una articolata rete internazionale di eventi, alcuni ancora in corso, che ne hanno raccontato le stagioni da scrittore e intellettuale, in Italia e all’estero, e l’esperienza editoriale per Einaudi. Cresciuto con il padre agronomo e la madre botanica, entrambi accademici di fama, Calvino racconta di avere voltato le spalle al sapere dei genitori sul regno vegetale, attratto piuttosto dalla «vegetazione delle frasi scritte» (Gran Bazaar, 1980). Eppure matura una precoce sensibilità ambientale per le condizioni di vita degli esseri viventi, per le relazioni tra specie diverse e gli effetti sugli uomini, tanto che l’immagine dell’albero diventa emblematica della sua opera: così ne Il barone rampante (1957), in cui il protagonista sceglie di vivere per sempre sugli alberi; nei boschi dei racconti partigiani (Il sentiero dei nidi di ragno, 1947; Ultimo viene il corvo, 1949), delle fiabe (Fiabe Italiane, 1956) e dei racconti ariosteschi (Il castello dei destini incrociati, 1969); nella sintassi ramificata e anche nel rapporto tra natura e città (La speculazione edilizia, 1963; Marcovaldo, 1963; Le città invisibili, 1972), luoghi plurali di ambientazione e ricerca – attraversati da sentieri, strade e percorsi, ma anche da incontri, avventure, scoperte e smarrimenti – nei quali i personaggi dialogano con quanto c’è intorno, secondo un principio che unisce l’immaginazione letteraria alla dimensione dello spazio, e instaura una nuova prospettiva da cui guardare.
La riappropriazione dell’ambiente
In questa consapevolezza razionale e fantastica irrompe l’effetto sconvolgente dell’Albero del Tule, che all’eccezionalità delle dimensioni, alla complessa trama di rami e fronde e alla longevità plurimillenaria coniuga la mancanza di ordine nell’aspetto, con «radici che salgono verso l’alto, segmenti di ramo diventati tronco, segmenti di tronco nati dalla gemma d’un ramo», quasi il segreto della durata nel tempo si celasse nella ridondanza, nel disordine, «nella smoderatezza del manifestarsi, nella profusione dell’esprimere se stessi, nel buttar fuori»; e la misura naturale del cipresso messicano fosse la moltiplicazione contro la riduzione e l’equilibrio, che governano invece i giardini giapponesi nei racconti di viaggio della quarta sezione della raccolta.
La riflessione sugli opposti, tra astrazione e concretezza, accompagnerà Calvino nella ricerca verso l’esattezza, estendendosi al rapporto tra concetto e parola, forma e sostanza, uomo e mondo, culminando nell’omonimo saggio delle Lezioni Americane (1988). Su questa direzione di compiutezza, l’indagine letteraria dello scrittore sanerà il distacco culturale dalla formazione scientifica dei genitori attraverso la riappropriazione dell’ambiente circostante, immettendo la possibilità di conciliare passioni e prospettive diverse, e concorrendo all’alterità dell’universo vegetale e dell’albero suo protagonista, di cui qualche anno dopo Hallè avrebbe fatto il suo manifesto di studio.
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