Vive in Texas, insegna letteratura inglese ed è un magnifico romanziere, Stephen King è uno dei suoi primi “tifosi”. Justin Cronin è salito alla ribalta nel 2001 con il suo secondo romanzo, “Mary e O’ Neill”, e ha fatto il definitivo salto di qualità con la cosiddetta “trilogia del passaggio”. Da domani Justin Cronin tornerà in libreria con “Il traghettatore” (528 pagine, 20 euro), tradotto da Eleonora Antonini e pubblicato dall’editore Fanucci. La scena, ambientata in un futuro distopico, si svolge principalmente in un remoto paradisiaco arcipelago, un’oasi nel pianeta in declino. Protagonista è Proctor Bennet, di professione traghettatore, che ben presto farà i conti con qualcosa di molto più grande di lui… Per gentile concessione dell’autore e dell’editore pubblichiamo, in anteprima, il prologo. Buona lettura
Prologo
Sta per spuntare l’alba quando lei sguscia via di casa. L’aria è calma e fresca; gli uccelli cantano sugli alberi. Ovunque, il suono del mare, il grande metronomo del mondo, che sbatte sotto un cielo vellutato di stelle evanescenti. Attraversa il giardino, con indosso la camicia da notte chiara. Il suo passo non è esitante, semplicemente pacato, quasi compiaciuto. Come somiglia a un fantasma, questa figura solitaria che fluttua tra le aiuole, le fontane gorgoglianti, le siepi affilate come lame taglienti. Dietro di lei, la casa è scura come un monolite, anche se presto le finestre affacciate sul mare si riempiranno di luce.
Non è cosa facile, lasciare una vita, una casa. I dettagli scavano trincee dentro di noi: profumi, suoni, associazioni, ritmi. Le assi scricchiolanti del pavimento al piano di sopra. L’odore che ti accoglie all’ingresso a fine giornata. L’interruttore della luce che la mano trova in automatico anche al buio. Potrebbe muoversi senza problemi tra i mobili con una benda sugli occhi. Vent’anni. Resterebbe altri venti se potesse.
Ha dato la notizia a Malcolm durante la cena. Una buona cena, una di quelle per cui lui va matto: costolette di agnello arrosto, risotto ai quattro formaggi, asparagi grigliati con un filo d’olio; buon vino. Caffè e dolcetti alla crema per dessert. Avevano deciso di mangiare fuori; era una serata talmente bella. Un tripudio di fiori sul tavolo, il tic tac del mare, la luce della candela a illuminare i loro volti. Non saprai quando succederà, gli ha detto. Semplicemente me ne andrò. È rimasta, impotente, a guardarlo incassare il colpo, il viso tra le mani. Così presto? Proprio ora? Andiamo a letto, gli ha ordinato lei – il suo corpo gli avrebbe detto quello che le parole non potevano –, e dopo lo ha stretto forte, mentre piangeva. Sono seguite ore buie. Alla fine l’inerzia del dolore lo ha inghiottito. Si è addormentato fra le sue braccia.
Addio, giardini, pensa, addio, casa. Addio, uccelli e alberi e giorni lunghi e tranquilli, e già che ci sono, addio a tutte le bugie che ho dovuto dire.
Sta invecchiando. Tutto quello che una donna può fare lo ha fatto. Le creme e gli estratti. Le ore di esercizio e la dieta seguita scrupolosamente. I piccoli, discreti interventi chirurgici di cui nemmeno Malcolm sa. Ha fatto ricorso a qualsiasi cosa pur di rallentare il tempo, ma è giunta alla fine. Aveva deciso di aspettare che qualcuno lo notasse, e poi, di punto in bianco, è accaduto.
«Ti stai prendendo cura di te, Cynthia?»
Avevano appena giocato a tennis, il solito gruppo del martedì, una decina di donne, come sempre. Dopo, bicchieri di tè freddo e insalate che tutte avevano appena spiluccato, non importava quanta fame avessero. Non aveva giocato bene. Aveva giocato piuttosto male, a dire il vero. Le ginocchia erano legnose e doloranti; il sole, troppo violento, le toglieva le forze. Era il tempo, che marciava inesorabile nelle sue membra, mentre tutt’intorno a lei, nei corpi e nei volti delle sue amiche, pareva muoversi a passo lento e gentile.
La domanda. La sua amica stava aspettando una risposta. Si chiamava Lauralai Swan. Aveva quasi sessant’anni ma ne dimostrava trenta: pelle tirata; gambe e braccia magre e muscolose, scolpite dallo yoga; capelli splendenti e folti. Persino le mani erano perfette. La domanda esprimeva una genuina preoccupazione o nascondeva qualcosa di più oscuro? Cynthia sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, eppure era stata colta di sorpresa; nessuna risposta pronta. La sua mente aveva cercato di elaborarla in fretta; appena in tempo, era arrivata. Le serviva una battuta divertente.
«Credimi,» aveva detto «se fossi sposata con Malcolm, sembreresti stanca anche tu. Quell’uomo non accetta un no come risposta.»
Aveva riso, sperando lo facesse anche Lauralai, e dopo un attimo di tensione in effetti era accaduto; avevano riso entrambe; e poi tutte giù a parlare dei mariti, alzando la posta ogni volta che si aggiungeva un’altra storia intorno al tavolo, arrivando perfino a confrontare i propri uomini con precedenti amanti ed ex mariti. Chi era il migliore, il più bravo a letto. Chi lasciava i pantaloncini da jogging fradici sul pavimento del bagno. Chi spremeva il dentifricio dal centro del tubo.
Era stato, insomma, un piacevole pomeriggio di sole, tutte insieme a chiacchierare come piace fare alle donne. Ma dentro di sé, Cynthia aveva sentito precipitare qualcosa. Ti stai prendendo cura di te? La cosa che era precipitata: una ghigliottina.
Addio a tutto questo e a tutti voi, che mi avete dato un surrogato di vita.
Eppure: non sono le feste e i concerti che le mancheranno; non la pelle di qualità dei suoi bagagli e delle sue scarpe; non le lunghe cene di cibo squisito e buon vino, o le chiacchiere vivaci fino a tardi; niente di tutto questo. Quello che le mancherà è il ragazzo. Pensa a due giorni, uno all’inizio, l’altro alla fine. Il primo è quello in cui è arrivato. Si era aspettata di non sentire nulla; adottare un pupillo era semplicemente una delle tante cose che facevano persone come lei, col suo tenore di vita. Un figlio era, in un certo senso, un pezzo di arredamento, come il divano nel soggiorno o un’opera d’arte alle pareti. Oh, hai adottato un pupillo!, avrebbe detto la gente. Sarai emozionatissima! Avevano già visto una foto, ovviamente. Non si sceglie alla cieca. Eppure il momento in cui Cynthia l’aveva guardato per la prima volta, lì, in piedi davanti al parapetto del traghetto, qualcosa era cambiato. Era più alto di quanto si aspettasse, almeno un metro e ottanta, la stazza enfatizzata dall’abito chiaro e informe, simile a un pigiama o a un camice da dottore. Mentre tutti gli altri pupilli fissavano oltre la ringhiera con una sorta di vacuo disinteresse, lui invece si guardava intorno, osservando la folla e gli edifici della città, e persino il cielo, inclinando la testa verso l’alto per sentire il sole in faccia. Aveva un taglio di capelli orrendo. Sembrava glielo avesse fatto un cieco. Se ne sarebbe dovuta occupare subito, farglieli tagliare in modo adeguato.
«Pensi che sia lui?» le aveva chiesto suo marito, e quando lei non aveva risposto si era rivolto all’agente per l’adozione che li aveva accompagnati al traghetto: «È quello nostro figlio?»
Ma Cynthia aveva recepito la conversazione solo distrattamente. La voce del marito; il brusio della folla; il sole e il cielo e il mare: tutto pareva impallidire in confronto all’improvvisa, vivida realtà del ragazzo. Le venivano in mente un sacco di domande. Che cibo gli sarebbe piaciuto mangiare, che vestiti indossare? Che musica ascoltare, che libri leggere? E perché questo improvviso impulso a interrogarsi su tutte queste cose? In fondo non era altro che una presenza prodotta interamente dalla burocrazia. Come mai provava quest’impeto di improvvisa tenerezza verso di lui? Il traghetto aveva completato le sue ultime manovre; i pupilli erano tutti riuniti in cima alla passerella, confinati dietro una barriera di corda; a nessuno dei tutori era permesso avvicinarsi. Il ragazzo – suo figlio – era il primo della fila. (‘Suo figlio’? Era successo così in fretta?) Aveva tenuto lo sguardo in avanti mentre scendeva sul molo, i passi misurati, le mani aggrappate alla ringhiera. Sarebbe potuto uscire da un veicolo spaziale sulla superficie di un mondo alieno, tanto era metodico ogni movimento del suo corpo. Alla fine della passerella, gli si erano fatti incontro un uomo in abito scuro con una cartellina e una donna con indosso un camice da laboratorio, e in mano un lettore. L’uomo in giacca e cravatta non aveva parlato al ragazzo; gli aveva invece scoperto il braccio e glielo aveva tenuto teso mentre la sua collega, presumibilmente una dottoressa, aveva inserito i fili negli ingressi del monitor. Tutto era rimasto fermo mentre il dottore esaminava i dati; sulla folla era calato un silenzio cauto. Alla fine la dottoressa aveva alzato lo sguardo, rivolgendosi a voce alta alla folla: «I tutori possono farsi avanti, per favore?»
L’agente aveva sganciato la corda, permettendo a Cynthia e Malcolm di avanzare; il ragazzo si era avvicinato. I tre si erano incontrati in uno spazio vuoto tra la folla e la passerella. Il ragazzo era stato il primo a parlare.
«Come va?» aveva detto, con un sorriso cordiale. «Sono Proctor, il vostro pupillo.»
Aveva teso la mano. Un gesto che era stato ovviamente istruito a fare.
«Bene, eccoti qua, figliolo» aveva detto suo marito. Per poi, raggiante, stringere forte la mano del ragazzo. «Siamo felici di conoscerti, finalmente.»
«Ciao, papà» aveva risposto il ragazzo; poi si era girato verso Cynthia, tendendo la mano anche a lei. «E tu devi essere mia madre. Sono molto contento di fare la tua conoscenza.»
La tua conoscenza! A Cynthia era venuto da ridere, e quasi non si era trattenuta. Non una risata di scherno, ma di puro piacere. Com’era gentile! Quanta voglia di comportarsi bene, di compiacerli, di renderli una famiglia! E poi che nome! Proctor, dal latino procurator (glielo aveva spiegato più tardi suo marito, che di queste cose se ne intendeva): un assistente o un amministratore, uno che si occupa degli affari degli altri. Che meraviglia! Lei non gli aveva stretto la mano, ma l’aveva avvolta tra le sue ed era rimasta così per un po’, a sentire il suo calore, il suo battito vitale. Lo aveva guardato negli occhi. Sì, c’era qualcosa in quegli occhi, qualcosa di diverso. Qualcosa di… profondo. Si era chiesta che tipo di uomo fosse stato prima. Che lavoro aveva fatto? Chi erano stati i suoi amici? Aveva avuto molte mogli?
Era stato felice?
«Cynthia, lascialo andare adesso.»
L’aveva liberato dalla sua stretta, ridendo. Tu devi essere mia madre. Era solo un ragazzo – alto un metro e ottanta ma comunque un ragazzo – appena rinato nel mondo; e lei sarebbe stata quello per lui. Sarebbe stata sua madre.
Proprio così, pensa ora, facendosi strada lungo il pendio erboso verso il sentiero. L’aria si è addolcita; le stelle sono state spazzate via; all’orizzonte è apparso un bagliore luminoso. Era stato quello il giorno in cui il ragazzo le aveva rapito il cuore. E non solo il ragazzo; anche Malcolm. Questa creatura etica e austera, amante dei codici e dei protocolli: era come se qualcuno avesse agitato una bacchetta magica sulla sua vita, come se da Pinocchio di grandi dimensioni fosse stato trasformato in persona da un amore improvviso. Il sorriso virile sul volto mentre stringeva la mano del ragazzo; la luce gioiosa nei suoi occhi quando gli aveva mostrato la sua stanza, con il letto e la scrivania in teak, i quadri di navi sulle pareti e il vecchio cannocchiale sopra il treppiede, rivolto verso il mare; il modo in cui, a cena, si era preoccupato di ogni cosa, desiderando che il ragazzo si sentisse il benvenuto, e la pazienza con cui lo aveva guidato all’uso del coltello, della forchetta e del tovagliolo; e poi, a fine giornata, quel piccolo sussulto soffocato quando, chiudendo la porta della camera da letto del ragazzo, l’aveva vista in piedi nell’ingresso e si era portato un dito alle labbra: Sssh. Come poteva non provare qualcosa per un uomo così?
E il secondo giorno, anni dopo. Aveva sentito dire qualcosa una volta, molto tempo prima, a proposito dell’amore e del lasciar andare. Non ricorda con precisione le parole, ma solo il concetto: la perdita intesa come criterio di valutazione e unità di misura dell’amore, proprio come un metro è fatto di centimetri e un chilometro di metri. Era stato il primo anno di università del figlio: un anno straordinario, in cui era emerso un talento particolare. Le aveva detto di non venire quel giorno – lo avrebbe reso nervoso, aveva spiegato, sapere che lei era lì –, ma Cynthia era andata lo stesso, e si era seduta in alto sulle gradinate della piscina coperta, dove poteva passare inosservata. L’aria era calda e umida, l’acustica frastornante. Sotto di lei, la piscina formava un rettangolo definito di un blu ultraterreno. Aveva osservato con vago interesse e un’impaziente stretta al petto l’andirivieni delle altre gare, finché non era arrivato il turno del figlio. I cento metri stile libero. Aveva lo stesso aspetto degli altri partecipanti – coi loro costumi aderenti, gli occhialini e le cuffie argentate, si assomigliavano praticamente tutti –, eppure solo lui era il suo ragazzo, lui, con quel portamento singolare che l’aveva colpita fin da quel giorno al parapetto del traghetto. Era in piedi vicino alla piscina, scuoteva le braccia, roteava il collo. Guardandolo, aveva provato una sensazione di ampliamento, come se lui fosse un’estensione di sé stessa, una specie di colonia o di avamposto. Il ragazzo aveva fatto un piccolo movimento saltellante e, con le guance gonfie, espulso nervosamente un soffio d’aria. Si stava concentrando, lei lo aveva capito, come avrebbe fatto un uomo che va in trance.
Avevano dato il segnale; i nuotatori erano saliti sui blocchi. All’unisono, si erano piegati sulla vita, le punte delle dita delle mani a sfiorare quelle dei piedi. La folla era tesa. Per un interminabile secondo i nuotatori erano rimasti immobili, dopo era scattato il via e dieci corpi giovani e vigorosi si erano lanciati in aria per venire poi inghiottiti dall’acqua.
A Cynthia era balzato il cuore in petto.
Suo figlio si trovava nella terza corsia. Una lunga planata sotto la superficie ed era riemerso. Lei intanto si era alzata in piedi e gridava come una pazza. «Vai, vai!» Le bracciate del ragazzo, incredibilmente lunghe, lo spingevano in avanti nell’acqua come se niente fosse. Stava accadendo tutto così in fretta, semplice questione di secondi, secondi che lei però percepiva come infiniti. Aveva fatto una virata, si era spinto dal bordo ed era riemerso un’altra volta, balzando al secondo posto. Due bracciate ed era in testa. Quello che sembrava impossibile stava per succedere. Lei continuava a gridare, il cuore in gola per l’adrenalina. Si stava svolgendo davanti ai suoi occhi: il momento più bello della vita del ragazzo.
La gara era finita prima che lei potesse rendersene conto. Un attimo prima si era allungato a toccare il muretto; e quello dopo si stava già girando in acqua a guardare l’orologio, dove il suo nome risplendeva accanto al tempo vincente. Aveva alzato un pugno in segno di trionfo, con un’espressione di incontenibile gioia in volto. Lei allora non lo sapeva, ma non aveva semplicemente vinto la gara; aveva battuto il record di due decimi di secondo. Il ragazzo nella corsia accanto gli aveva schiaffato un bel cinque sul palmo alzato.
Poi lui si era staccato dagli altri e aveva alzato lo sguardo per scrutare la folla. All’improvviso Cynthia aveva capito. Le proteste erano state uno stratagemma. Sapeva sin dall’inizio che lei sarebbe stata lì. Quella vittoria era un dono per lei. Ma proprio mentre si stava alzando per chiamarlo, una ragazza si era fiondata dalle gradinate a bordo piscina. Il figlio si era issato velocemente dall’acqua. Si era tolto gli occhialini e la cuffia mentre la ragazza volava verso di lui per lanciarsi tra le sue braccia. L’aveva sollevata da terra, tanto era stato euforico l’abbraccio. Senza alcun imbarazzo aveva poi poggiato la bocca su quella di lei, in un bacio lungo e profondo. La folla aveva applaudito rumorosamente; alcuni sugli spalti si erano messi a fischiare.
C’erano già state delle ragazze, ovviamente. Dopotutto era un giovane alto, con le spalle larghe, un bel sorriso e lo sguardo di chi ti prende sul serio, di chi ti ascolta veramente, e non aspetta solo il suo turno per parlare, come di solito fanno i ragazzi. In altre parole, tutto quello che le ragazze adoravano.
Ma questa ragazza era diversa. Era stato il bacio a farglielo capire. Perché non l’aveva mai nominata? La risposta era ovvia. Perché non voleva farlo.
Aveva lasciato la piscina in fretta e furia, molto scossa. Si sentiva bandita, cancellata. Il suo ragazzo non era più un ragazzo; aveva preso posto al tavolo della vita. Quando era uscita dall’edificio, il sole pomeridiano l’aveva colpita in pieno come un faro, luminoso di dolore; aveva cercato nella borsa gli occhiali da sole e se li era fatti scivolare sul viso. Un pezzo di lei si era sempre tenuto in disparte – la fine era stata decretata fin dall’inizio, l’ultimo accordo pensato già dalla prima battuta della sinfonia –, eppure niente l’aveva preparata a quello che stava vivendo ora. Come l’aveva resa bugiarda l’amore! Era stato questo pensiero, alla fine, a farle venire le lacrime agli occhi, e si era precipitata giù per le scale, nel parcheggio e oltre, in un pomeriggio pieno d’impegni; e di solitudine.
Tutto questo ora non esiste più; è finito.
Al molo, l’attende la barca. Ci sale sopra, sistema i remi nei blocchi e salpa. Il sole appena sorto spara tentacoli rosa nel cielo, sopra il mare placido. Non c’è un filo di vento. Si concede un momento tranquillo, alla deriva, poi prende i remi nei pugni e si allontana dalla costa.
Il molo, la spiaggia, le dune, la casa dove ha vissuto per due decenni: tutto diventa più piccolo. Le immagini assumono tratti confusi, poi scompaiono. Oltrepassato un determinato punto, l’oceano cambia, diventa scuro e selvaggio. Il sole sul collo si è fatto caldo. Le onde la spingono mentre la barca fa su e giù.
Sta aspettando un testimone.
Lo sente prima di vederlo: un ronzio debole e ansimante, come una ‘v’ prolungata pronunciata a labbra semichiuse. Il drone si abbassa sull’acqua sulle sue ali da libellula, decelera e si va a sistemare sopra di lei. Costruito per assomigliare a un insetto, ma chiaramente meccanico, sembra al contempo naturale e artificiale e quindi nessuna delle due cose. Lei alza il viso per guardarlo meglio. Dal ventre cromato e lucido del dispositivo sporge la cupola di vetro che contiene la fotocamera.
Chi la sta guardando? Si figura un uomo, nel seminterrato del ministero della Pubblica Sicurezza, seduto davanti a un muro di schermi. È stato sveglio tutta la notte; ha gli occhi stanchi e secchi, il mento coperto di barba corta, un sapore acre in bocca. Con gli stivali appoggiati sul tavolo, sta facendo un cruciverba su una rivista di enigmistica. Qualcosa gli fa alzare gli occhi. Cosa abbiamo qui? Una donna, sola su una barca a remi. Strano, vedere qualcuno fuori a quest’ora; e quella che indossa è veramente una camicia da notte? Spinge le dita su qualche tasto. Su un secondo schermo, che mostra il profilo della costa, appare un punto rosso a indicare la posizione del drone. La donna in camicia da notte è a circa tre miglia dalla riva.
L’uomo batte su altri tasti. Attraverso il sistema di riconoscimento facciale del computer, raccoglie i dati: il suo nome, quello di suo marito, il suo indirizzo e l’età, cinquantuno anni. Scopre anche che è un’ex dipendente del Consiglio dei Supervisori del dipartimento degli Affari Legali; che è membro regolare dell’Harbour Club, dell’Union League e dell’Opera Circle; e che ha preso, negli ultimi due anni, sei multe per divieto di sosta, tutte pagate. Ora viene a conoscenza dei nomi degli enti di beneficenza a cui ha fatto delle donazioni, gli organi di informazione che utilizza, l’ammontare del suo conto in banca, la sua taglia di vestiti (42) e il numero di scarpe (41), e il nome del suo ristorante preferito (Il Forno, su Prosperity Plaza; secondo la sua carta di credito, mangia lì una volta alla settimana). Viene a sapere, in altre parole, parecchie cose su di lei, ma niente che possa dirgli perché si trova su una barca a remi a circa tre miglia dalla riva alle 06:42 (controlla l’ora) di un martedì mattina di luglio. Con addosso una camicia da notte. Da sola.
E cosa sta facendo adesso?
L’uomo si strofina gli occhi e avvicina il viso allo schermo. Da sotto la panca la donna ha recuperato un sacchetto. Scioglie il nodo con la punta delle dita ed estrae il contenuto, tre oggetti, che poggia sulla panca accanto a lei. Una specie di bastone o qualcosa di cilindrico, lungo circa trenta centimetri. Un paio di tronchesi. E, da un vecchio fodero di cuoio, un coltello.
L’uomo di fronte al computer alza il telefono.
In effetti, è solo osservando gli eventi attraverso gli occhi di quest’individuo immaginario che Cynthia è in grado di fare ciò che viene dopo. Mentre lui osserva la scena con ansia crescente, aspettando che il suo superiore risponda, lei si mette l’oggetto cilindrico in bocca e tira su la manica della camicia da notte per scoprire l’ingresso del suo monitor, un piccolo rettangolo incastonato a metà tra il gomito e il polso sinistri. Poi prende il coltello. È lungo quindici centimetri, con una punta ricurva, del tipo usato per squamare e pulire il pesce. Fa tre respiri profondi, stringe la presa sul coltello. Posiziona la punta nel piccolo solco di carne sul bordo del monitor, aspetta che la barca si fermi, e poi si infila la lama nel braccio.
Il dolore è incredibile, così come la quantità di sangue che fuoriesce. L’immagine sullo schermo dell’uomo è senza audio; quello che avrebbe sentito è una serie di urla strozzate, mentre il coltello incide intorno al perimetro del monitor. Il silenzio è per lui una benedizione, e Cynthia prova una fitta di pietà per questa persona sconosciuta, scelta a caso per subire una scena così orribile. Quando ha finito, la camicia da notte, la panca, il fondo della barca a remi, ogni cosa è inzuppata di sangue. Le gira la testa; pensa di essersi rotta un dente. Con un affondo finale, incunea la punta del coltello sotto il monitor. Uno strappo e un piccolo scoppio umido e cupo, e poi finalmente il dispositivo viene fuori.
Rispondi, perdio, l’uomo respira nel telefono. Rispondi, rispondi, rispondi.
Due colpi di tronchesi e il monitor cade di lato. Lei si toglie il cilindro dalla bocca e butta pure quello in mare. Puntini di luce, come lucciole, le danzano davanti agli occhi; ha cominciato ad ansimare. Un istante per raccogliere le ultime forze e poi raggiunge la prua per liberare l’àncora dal supporto.
Comincia ad avvolgersi la catena attorno alla caviglia.
Ed è allora che il superiore dell’uomo finalmente risponde al telefono. Sì?, dice seccato. Che diavolo c’è a quest’ora?
Ma l’uomo allo schermo non risponde. Non può. Non riesce a pronunciare nemmeno una parola.
Cynthia si alza. La camicia da notte intrisa di sangue le aderisce alla carne.
La barca sobbalza sotto di lei; quasi cade. Le membra sembrano sconnesse; la testa incredibilmente leggera. Eppure trova la forza per sollevare l’àncora e mettersela contro il petto.
Inclina il viso verso l’alto. Sopra di lei, contro l’azzurro del cielo mattutino, si libra il drone.
Cosa starà pensando? Questo, l’uomo allo schermo non può saperlo; neanche immaginarlo. Sta pensando al ragazzo e al marito, e alla loro improbabile vita insieme, troppo breve. Addio, sussurra. Addio, miei cari, non avrei mai dovuto amarvi ma l’ho fatto, oh, se l’ho fatto. E stringendo l’àncora al petto – teneramente, come una madre un figlio – chiude gli occhi, si dondola all’indietro e viene inghiottita dall’acqua.