I “sette libri per l’inverno” di… Angelo Biasella

Italiani super talentuosi e stranieri che sono classici. In linea di massima sono questi i suggerimenti di lettura di Angelo Biasella, editor ed editore – la sua creatura è Neo edizioni, sigla indipendente e di qualità. I suoi sette consigli si aggiungono a quelli di altri addetti ai lavori nella nostra rubrica più letta (qui tutte le puntate precedenti)

“Estensione del dominio della lotta” di Michel Houellebecq (La nave di Teseo), traduzione di Sergio Claudio Perroni

Credo che Houellebecq sia, al momento, uno tra i pensatori più influenti del mondo. Il suo sguardo cinico, chirurgico (dovuto anche alla sua formazione scientifica) ha un fascino, per me, irresistibile. Leggo tutti i suoi libri (con sempre meno entusiasmo, a dire il vero). La brillantezza della sua prosa e la lucidità di visione vanno scemando con il passare degli anni. È umano, anche se sembrava un alieno. Allora, per apprezzare la sua opera, bisogna andare a ritroso. E andando indietro nel tempo si arriva al primo romanzo pubblicato in Italia: Estensione del dominio della lotta. Romanzo breve: un Houellebecq in pillole. Lì dentro c’era già tutto il suo istinto letterario, il nucleo attorno al quale si sarebbe mossa la sua narrativa futura. Nessuno come lui in questo romanzo ha fatto della disillusione contemporanea un’arte dalle accezioni poetiche.

houellebecq

“Dalle rovine” di Luciano Funetta (Tunué)

Questo forse è fuori catalogo ma, se devo elencare i sette romanzi che più mi hanno colpito negli ultimi anni, non posso assolutamente ometterlo. Fa parte della collana Romanzi di Tunué Edizioni curata da Vanni Santoni. Esperimento molto interessante che, purtroppo, dopo qualche anno ha dovuto chiudere i battenti. Ricordo che quando lo lessi, da tempo un libro non mi shakerava il cervello a quel modo. Pensai che, anche se lavoravo sotto le feste, il cuore delle mie giornate si era ridotto a quelle due ore di notte in cui potevo permettermi di leggere. Leggere cose che “volevo” leggere, intendo. Senza fretta e sensi di colpa. Allora mi resi conto che questa storia di serpenti e pornografia era assurda ma necessaria; che la lingua di questo autore era già matura e potente; che il punto di vista del narratore era fenomenale; e che quello, in sintesi, era il miglior esordio letto nel 2015. Peccato che nessuno sia disposto a ripubblicarlo. Magari tra qualche anno lo farò io.

funetta

“Full of life” di John Fante (Einaudi), traduzione di Alessandra Osti

Per me John Fante ha un potere salvifico. Forse c’entra il fatto che io sono abruzzese, e che lui aveva origini abruzzesi. Fatto sta che, da sempre, lo uso come elisir di lettura ogni volta che incappo in un periodo di stanca. Per questo sto centellinando la sua opera. Perché ne ho bisogno e, purtroppo, i suoi libri sono un bene finito, non ripetibile. Ne prendo uno e inizio a leggerlo, anche controvoglia, quando sono talmente oberato di letture lavorative che mi viene la nausea al solo pensiero di aprire un libro. Risultato: mi torna la gioia di leggere. Una magia. Oltretutto, ho sempre creduto che il tragicomico fosse la più alta rappresentazione dell’intelligenza umana. Voglio dire, riuscire a ridere delle nostre disgrazie è, forse, ciò che maggiormente ci rende umani. E in questo romanzo si ride e si piange, spesso nel corso della stessa pagina.

fante

“I divoratori” di Stefano Sgambati (Mondadori)

Questo è uno dei miei crucci. Ho un tarlo in testa dal momento in cui ho girato l’ultima pagina. Quando ho chiuso il libro, ho alzato lo sguardo al soffitto e ho pensato: “Ha scritto un capolavoro”. Poi mi sono messo comodo a vedere come il mondo editoriale italiano avrebbe acclamato l’opera di questo giovane autore e sancito la nascita di un grande scrittore. Ho aspettato entusiasta (“Oggi uscirà un paginone su Robinson”), poi fiducioso (“Sì, ci vuole tempo per metabolizzare qualcosa di così estraneo”), dopo ancora (“Dai, possibile che non lo apprezzino?”), infine delusissimo (“In Italia non capiamo un cazzo!”). E tant’è: capiamo davvero poco se abbiamo lasciato un romanzo del genere cadere nel dimenticatoio o, peggio, relegato su Amazon dove è oltraggiato da poche recensioni di evidenti haters dell’autore che, forse, aveva il solo difetto di non mandarle a dire sui social. Fossimo stati oltreoceano, invece, avremmo celebrato la scoperta del nuovo Bret Easton Ellis: un italiano che fa l’americano meglio degli americani.

Sgambati

“La terra del sacerdote” di Paolo Piccirillo (Neri Pozza)

Una storia di malavita ambientata dove non te l’aspetti, in una campagna molisana oscura e pericolosa. Una regione che, lontana dalle rotte turistiche, nasconde paesaggi inviolati e segreti inconfessabili. Piccirillo ha una voce autoriale unica, riconoscibile. Fa un uso del dialetto calibrato, lo rende completamente asservito alla trama. Uno slang molisano mai urticante che amalgama personaggi e storia in un tutt’uno estremamente riuscito. A un certo punto, alcuni libri smettono di essere di chi li ha scritti ed entrano a far parte di qualcosa di ampio, qualcosa che ha a che fare col patrimonio comune di un popolo, di una nazione. Io non so esattamente come un ragazzo di 27 anni (tanti ne aveva quando lo diede alle stampe) ci sia riuscito, eppure è innegabile che Paolo Piccirillo abbia raggiunto questo obiettivo.

Piccirillo

“La vita oscena” di Aldo Nove (Einaudi)

Nel mare magnum dei romanzi di formazione melensi o contriti, nel 2010, è affiorata questa gemma preziosa. Probabilmente, oggi che sono canuto e avvizzito non mi sconvolgerebbe così come quando lo lessi. Con l’età si diventa più indifferenti e impermeabili alle emozioni. Quando uscì, invece, rimasi molto sorpreso. Mai avrei creduto che in solo un centinaio di pagine potesse condensarsi una tale potenza evocativa. Il romanzo aveva tutto quello che cercavo in un’opera letteraria in quel dato momento storico. Una concordanza di intenti mai più sperimentata. Il connubio perfetto tra domanda e offerta. Nel corso delle pagine, Aldo Nove ripercorre la sua infanzia, poi l’adolescenza costellata di esperienze sessuali e droghe. E cesella ogni parola con il mestiere e la grazia del poeta. Ancor prima che un grande romanzo, La vita oscena è il manifesto letterario di un uomo libero.

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“Cecità” di José Saramago (Feltrinelli), traduzione di Rita Desti

Si sono spesi litri di inchiostro per parlare di questo romanzo e idolatrarne l’autore. Forse è il libro che più di tutti ha contributo alla mia formazione agnostica e alla successiva scelta da apostata. Vedere come la semplice privazione di un senso potrebbe determinare il tracollo di ogni morale e far precipitare il mondo nel caos è un monito che, da allora, tengo sempre a mente. In fondo, non siamo che scimmie un po’ più evolute. L’abisso e l’ignominia sono sempre in agguato dietro l’angolo. Basta che salti un tassello nella nostra routine e le regole della convivenza civile possono dissolversi a dimostrazione che la sopravvivenza della specie si basa su piccoli e fragili meccanismi che abbiamo adottato come convenzione. In Cecità tutto appare drammaticamente precario e, al contempo, affascinante. Quanta bellezza può esserci nella violenza che la vita impone per perpetuarsi? Uno scavo nei recessi più reconditi e brutali dell’animo umano. Un inferno che ogni lettore dovrebbe attraversare per uscirne assolto e pacificato.

saramago

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