Dovid Bergelson è tra i maggiori scrittori yiddish di tutti i tempi, una letteratura che ha rinnovato a partire dal suo romanzo “Alla fine della storia”, cucito addosso a un’eroina, Mirele, alla sua indipendenza, al suo spaesamento esistenziale, alla sua vita fatta d’autunno senza aver vissuto mai la primavera…
Dovid o David Bergelson è uno dei principali personaggi – certamente il più tragico – di un importante libro di Masha Gessen, Dove gli ebrei non ci sono (ne abbiamo scritto qui), pubblicato in Italia da Giuntina. Nato in Ucraina e morto fucilato in Russia, nel giorno del suo sessantottesimo compleanno, in quella che è passata alla storia come “la notte dei poeti assassinati”; una serie di esecuzioni, una delle ultime operazioni eclatanti del Kgb, prima della morte, di lì a poco, del dittatore sovietico. Più letterario e meno folkloristico di totem come Sholem Aleichem o Mendele Moykher Sforim, Bergelson è tra i maggiori scrittori yiddish di tutti i tempi e Marsilio pubblica uno dei suoi maggiori romanzi, che risale al 1913, un’opera dalla lunga gestazione e dalla bellezza limpida – scritto in un clima di grande fecondità intellettuale, con l’autore abile a incoraggiare i talenti altrui e a circondarsi di autori coetanei amici e di spessore – e con una protagonista degna di essere affiancata alle grandi eroine della letteratura di tutti i tempi. L’editore veneziano ripropone, a più di vent’anni dalla prima volta, Alla fine della storia (352 pagine, 20 euro), che nella prima edizione di Marsilio aveva un altro titolo, ovvero La fine del canto. Copertina, titolo e una prefazione di Wlodek Goldkorn a parte, il resto è intatto, ovvero la traduzione a quattro mani di Daniela Mantonvan Kromer e di Alessandra Luise.
La metamorfosi degli sthetl
I feroci cambiamenti della storia – dalla rivoluzione d’Ottobre ai pogrom, dalle guerre mondiali allo stalinismo – vissuti in pieno e incarnati nei personaggi di carta a cui ha dato vita hanno segnato inevitabilmente l’attività letteraria di Dovid Bergelson, cresciuto in una famiglia agiata, vissuto fra Germania (tra il 1921 e il 1933) e Russia, cantore degli sthetl, i villaggi dell’Europa dell’est popolati in maggioranza da ebrei. Bergelson li coglie quando la modernità avanza, i rapporti con la tradizione religiosa si allentano, specie fra i più giovani, e anche la popolazione comincia a diminuire, attratta dalle grandi città, quando non dall’estero, a cominciare dall’America. È così che proietta la letteratura yiddish nel futuro. Pur essendo un volume corposo, Alla fine della storia si distingue per una scrittura essenziale, fatta di pensieri impliciti, frasi smozzicate, quando non arrestate dal silenzio. Spicca fra i romanzi yiddish e tout court dell’epoca per una vivisezione del mal di vivere pienamente novecentesca.
Ti ho sposato per indifferenza
Il romanzo di Dovid Bergelson è cucito addosso a Mirele Hurvitz, che affascina e respinge, è una donna capace di manipolare e di far cadere, invaghiti di lei, molti pretendenti. Mentre lei, bella e impossibile, sogna di andar via dall’opprimente provincia in cui è nata e cresciuta, in tanti la corteggiano vanamente, soprattutto buoni partiti. Allergica ai compromessi, sensibile e istruita, frustrata da ciò che è, da dove viene e dal futuro a cui sembra destinata e che la fa sentire in trappola, Mirele è vanitosa ma tormentata dalla bellezza. Si sposa per indifferenza, forse solo per trasferirsi in una città (dove comunque non supererà il sostanziale spaesamento esistenziale che le si agita in petto, vivere l’autunno senza aver mai vissuto la primavera…), e dettando comunque le regole.
Mirele si riconciliò con il suo fidanzato e le nozze vennero fissate nuovamente per il Sabato dopo Shvues.
Destarono scalpore le due nuove condizioni che Mirele era riuscita a imporre al suo promesso sposo: – Vivere con lei, come marito e moglie, questo non doveva proprio aspettarselo. E lei, Mirele, inoltre…
– Avrebbe potuto andarsene, lasciare lui e la sua casa, quando lo avesse desiderato.
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