È un piccolo cupo capolavoro, armonioso nella forma e perturbante nella sostanza, “Delitto impunito” di Georges Simenon. Nelle sue pagine, ambientate tra Liegi e l’Arizona, un cortocircuito mentale, i sensi di colpa lunghi decenni di un ragazzo poi uomo. E la vita che pretende sempre il conto…
Tra l’America e l’Europa. Due luoghi e due momenti distanti nel tempo in cui la vita viene a chiedere il conto, a pretenderlo. Non si può sfuggire, forse, a certi passaggi esistenziali, perfino a qualche cortocircuito mentale. E Georges Simenon ce lo ricorda con uno di quei suoi romanzi, l’ennesimo, tanto armoniosi nella forma quanto perturbanti nella sostanza. Adelphi non smette di pescare nella miniera dello scrittore belga, pubblicando nella traduzione di Simona Mambrini, un libro di settant’anni fa, Delitto impunito (184 pagine, 18 euro). In quegli anni il papà di Maigret soggiornava proprio negli Usa, location che gli tornò utile per la seconda metà di questo romanzo.
Non solo un “tradimento”
Queste vecchie, nuove, pagine magnetiche di Simenon ci introducono in una pensione, a Liegi, quella della signora Lange, vedova. Tra gli anni Venti e i Trenta del Novecento. Con la sua prosa di dettagli perfetti ci presenta Èlie, orfano di madre, squattrinato studente originario di Vilnius, lontano dai lunghi e rigidi inverni, da una terra dove da giovani ci si sente già vecchi, ha trovato il suo habitat.
Adesso che era lontano, tutto ciò gli appariva come un tumulto implacabile, le persone simili a insetti obbligati a divorarsi a vicenda per sopravvivere. […] Era per via di quel tumulto che se ne stava rintanato in casa della signora Lange come se avesse trovato finalmente un rifugio.
Louise, una giovane donna, figlia della signora Lange, a cui Èlie è molto affezionato, fa in fretta a guardare altrove. L’ultimo arrivato, fra gli avventori, non fa in tempo a bramarla, seducendola in fretta. Facoltoso, elegante, abituato a essere amato, il romeno Michel irrompe nella vita di chi alloggia nella pensione e sconquassa qualsiasi equilibrio. Èlie – che spia gli amanti – si sente defraudato. Ma, probabilmente, più del “tradimento”, patisce la gioia, la spensieratezza e la disinvoltura delle azioni del rivale, covando l’idea di una punizione, di una vendetta.
C’era qualcosa di scandaloso, di sfrontato nella felicità che ostentava e lo permeava…
La quotidianità si inceppa ancora
Il desiderio di uccidere quella felicità e chi la esibisce si impossessa implacabilmente dei pensieri di Èlie, che si sente sempre più escluso, marginale, insignificante. Smette di arrovellarsi e di fare congetture, e passa all’azione. Quello che Simenon riesce a plasmare è un anomalo noir dell’anima. Èlie convive con un senso di colpa lungo più di un quarto di secolo, fra due colpi di scena magistrali di Simenon, il primo in Belgio, il secondo, tanti anni dopo nell’hotel di Carlson City, un paesino dell’Arizona, dove lavora Èlie, che è riuscito a rifarsi una vita, lontana dagli studi di matematica compiuti. Sente che la vita gli chiederà conto e ragione del crimine che ha commesso. E, in qualche modo, è così. Nella seconda parte del romanzo di Georges Simenon, siamo nel dopoguerra, in quel piccolo centro vicino a una miniera di rame, dove il polacco ha sposato una messicana, la quotidianità si inceppa, per la seconda volta in una vita… Delitto impunito è un piccolo cupo capolavoro.
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