Ne “La suite di Giava” Jan Brokken compie un viaggio esistenziale, si mette sulle tracce del passato dei suoi genitori, in particolare della madre Olga e del suo sentimento di nostalgia dopo il trasferimento nelle Indie: un’avventura inebriante, ma anche dolorosa per la coppia
In una leggera giornata di inizio primavera, Jan Brokken mi confidò di aver perso la sua famiglia. La voce era ferma ma accennava a perdersi, ad andare lontano con i pensieri. Non ha mai accettato di averla perduta, mi disse, prima che i genitori morissero negli anni Ottanta, una manciata di anni l’uno dall’altra, aveva già presagito che non avrebbe avuto il tempo di conoscerli fino in fondo. La sua famiglia aveva vissuto un’altra vita lontano dall’Olanda, in Indonesia, lui era nato sul finire degli anni Quaranta nei Paesi Bassi quando ormai tutto era finito. La sua famiglia perduta di fatto si era formata e alimentata in quel luogo lontano, aveva condiviso le scoperte dei primi anni e la tragedia della guerra, durante la quale furono detenuti in un campo di prigionia giapponese. Tutto quel bagaglio di esperienze maturate, condivise prima tra Olga e Jan (i genitori di Brokken) e poi con i loro due primi figli, hanno dato all’autore olandese la cifra di un’impalpabile dilemma dello sconosciuto: da un lato, c’era l’inafferrabile vita che era già stata e dall’altro, quella che lui aveva vissuto in prima persona.
Le lettere della madre
Due anni dopo la morte di suo padre, la zia Noor gli consegnò un fascio di lettere che sua madre Olga le aveva scritto dalle Indie: “le lettere di mia madre erano rimaste “in cassaforte” da zia Nora, non credevo che contenessero oscuri segreti. Mi sbagliavo: le lettere erano di una sincerità rara, e quando tenevano nascosto qualcosa era solo perché lei non voleva lamentarsi e cercava di evitare qualsiasi forma di compassione”. C’era un motivo per cui sua zia consegnò a lui quel fascio di lettere, anziché a uno dei suoi fratelli: “Tu”, mi disse, “sei ancora alla ricerca di tua madre”. E aggiunse quasi bruscamente: “E non hai ancora scoperto chi fosse davvero”.
In quelle lettere, riappariva il volto di una giovane donna, sconosciuta a Brokken, “una ragazza – di ventitré anni la cui vita prese all’improvviso uno slancio potente”. Con suo marito Jan, al quale era stato affidato un progetto di ricerca, arrivarono a Giava sul finire dell’agosto del 1935, “dopo una traversata di quattro settimane da Genova a Batavia a bordo della Johan Van Oldenbarnevelt”.
Olga ebbe una folgorazione per quei luoghi così distanti dal paesaggio olandese costituito principalmente da dune sabbiose e battute dal vento, i tropici furono per lei lo stesso campo di scoperta che suo marito Jan batteva per acquisire informazioni sui movimenti religiosi nascenti all’ombra del cristianesimo e dell’Islam. Se Olga trascorreva lunghe giornate da sola, l’unico sentimento che pareva provare era un’inconsapevole eccitazione innescata dal senso dell’avventura che non sapeva di possedere, ma che emerge preponderante nelle lettere dei primi anni inviate a sua sorella Noor. Furono i giardini di Buitenzorg a far scoccare il colpo di fulmine per i tropici, “non solo dal punto di vista emotivo, ma anche sensoriale, per via di tutti quei profumi”. Olga non affrontò il suo trasferimento nelle Indie dando vita a un sentimento di nostalgia, guardava al suo paese di origine come una fonte che poteva provvedere alla mancanza di oggetti: spartiti, tessuti, modelli; lasciò l’Olanda sapendo che l’Indonesia le avrebbe consentito di scrivere la sua vita come un’esploratrice, un foglio bianco sul quale tracciare una sua personale mappa.
Tua madre è stata l’unica che ha avuto il coraggio di lasciare la casa paterna e volare via come un uccello […] Le sue parole (del nonno, ndr) mi sembrarono belle in un modo misterioso da quel momento notai che gli uccelli non si girano mai indietro quando volano via.
Un nuovo destino, forse
Olga affrontò la vita nelle Indie come la possibilità di costruire il proprio destino, come una nuova venuta al mondo, quelle isole rappresentarono un diario aperto sul quale tracciare nuove parole, costruire un dizionario sentimentale in cui una lingua diversa dall’altra riusciva a restituirle il significato più privato che sentiva dentro se stessa. La giovane donna aveva una forte abilità nell’apprendere le lingue parlate dalle popolazioni locali, con il suo insegnante, “lui era più che il mio professore, era la mia coscienza”, trascorreva ore di apprendimento, riempiva le giornate di parole capaci di portare con sé una nuova visione sul mondo e su ciò che sarebbe stato di lei.
Insieme alle lettere, la musica eseguita al pianoforte si mescolava a quella di quei luoghi suonata con i gamelan, riuscendo a toccare corde più profonde. Lo sa bene Jan Brokken che avvertì, in un lontano pomeriggio, nelle note de La suite di Giava – questo il titolo del suo libro (256 pagine, 17,50 euro) per Iperborea, tradotto da Claudia Cozzi – un’epifania tutto sommato sconosciuta. “La suite di Giava ha fatto riaffiorare in me tanti di quei ricordi che mi sembrava di avere una bufera nella testa”.
Quella suite, così come la passione per gli orti botanici, che Brokken riconosce di avere sin dalla tenera età, grazie alle escursioni all’orto botanico di Leiden che faceva con suo nonno durante le vacanze di autunno e di Pasqua, insieme alle lettere, sono stati il ponte di congiunzione con quella versione di Olga, ormai persa nel tempo, una donna che non mostrava facilmente le sue emozioni in pubblico, “mentre in realtà le venivano le lacrime agli occhi per un nonnulla ed era incapace di nascondere tanto la rabbia o il minimo accenno di turbamento quanto la gioia. Anche questo ho ereditato da lei”. Come la voglia che Brokken ha identica a quella di suo fratello, “lui è nato in quel continente, io in quest’altro ma questo era ciò che ci legava”, una sorta di mappatura che riconduce entrambi alle stesse radici.
Un’ebbrezza destinata a finire
Negli anni trascorsi nelle Indie, nelle lettere emerge quanto l’approccio tra i due coniugi sia stato diverso: Jan si dedica maggiormente alla scoperta del culto che trascina le popolazioni, mentre Olga è intenta a perlustrare un territorio che le trasferisce emozioni personali, sale a cavallo, si dedica al giornalismo, suona il pianoforte, costituisce un gruppo di cucito con le donne locali. È un’ebbrezza destinata a finire nel modo più doloroso possibile: “da nessun’altra parte ho sofferto tanto, da nessun’altra parte ho vissuto così intensamente”. Me l’ha detto più di una volta, e questo era il nocciolo della sua vita precedente”.
L’Indonesia fu inebriante, condusse i due giovani olandesi a imparare l’attrazione dei loro corpi, a coltivare la vita di coppia; i giorni in cui Jan era lontano, erano i giorni dell’attesa del suo ritorno; la vita negli angoli più remoti di quelle isole, un modo per riavvicinarsi e sentire lo sfioramento della pelle creare elettricità. Come Olga riscriveva la sua esistenza alla luce di nuove lingue capaci di esprimere il nuovo sé che stava plasmando la sua esistenza, così l’esperienza di Jan passava “semplicemente” per trasformazioni diverse, intendeva quella vita nelle Indie come una rinascita, “lui è quel genere di emigrante – scriveva Olga – che crede che tutto ciò a cui va incontro sarà migliore di ciò che si è lasciato alle spalle. A Batavia e Buitenzorg era rinato, diceva che questo adesso era il suo futuro”. In quelle lettere scritte da Olga, Jan non solo cambia la data del suo compleanno, in quelle lettere, la rinascita passa anche dal nome che cambia ciclicamente a seconda degli anni che scorrono: “nelle prime lettere qualche volta lo chiama ancora Johan. Poi diventa sempre Han, abbreviando Johannes, il suo nome per intero. Dopo la guerra scrive Jan, come lo chiamavano tutti. Quel nome, Han, è legato agli anni più belli della sua vita, gli anni in cui scoprivano le Indie e si avvicinavano l’uno all’altra”.
Un tentativo vano
Jan Brokken viaggia in Indonesia in due occasioni, la prima nel 1979 quando ancora non poteva visitare liberamente i luoghi in cui avevano vissuto i suoi genitori, e l’altra negli anni Novanta, accorgendosi ogni volta che quegli anni perduti in cui la sua famiglia si era consolidata, come le foreste indonesiane, risultavano ai suoi occhi misteriosi e impenetrabili. E alla fine, dolorosi. Ogni volta quel tentativo di comprendere e conoscere sua madre Olga, forse risultava vano. “Un pensiero mi era arrivato all’improvviso: non tornare più, per smettere di immergermi nei ricordi dei miei genitori e dei miei fratelli. Le Indie erano la loro storia, il loro passato, il loro sogno finito in un incubo, il loro personalissimo trauma”. Alla fine, non c’è modo di allontanarsi dal passato, le lettere e le fotografie custodite da sua zia Noor, ripercorrono la vita di Olga che “è come percorrere a ritroso il cammino che ti ha condotto a te stesso”, le note de La suite di Giava sono state un richiamo, il frangente esatto in cui annullare la distanza che si era creata tra lui e Olga.
In quel pomeriggio, Jan Brokken mi disse che le sue radici risiedono nella sua scrittura, “io sono dove scrivo”, luogo in cui trovare pace. Scrivere questo libro, dunque, è stato un esercizio di conoscenza: ripercorrere la vita di Olga nelle Indie è stata la sintesi di un viaggio esistenziale, la metafora silenziosa del “dirsi addio”.
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