“La grande storia dei gladiatori” di Federica Campanelli è uno studio puntuale su un aspetto particolare della Roma antica che riecheggia ai giorni nostri. Origini, sviluppo e decadenza di uno “svago” di grandissima fortuna. Niente a che fare, comunque, con gli sport e i campioni strapagati di oggi…
Una delle immagini che vengono in mente quando si pensa all’antica Roma è quella dei giochi gladiatori: enormi anfiteatri gremiti di spettatori che gridano ed esultano, mentre nell’arena uomini armati si affrontano in duelli all’ultimo sangue o combattono contro bestie feroci. Come nacquero queste manifestazioni? Qual era il reale significato? Sono questi i quesiti da cui parte il libro di Federica Campanelli, La grande storia dei gladiatori (352 pagine, 14, 90 euro), edito da Newton Compton. Un racconto in chiave storica di un aspetto assolutamente particolare della Roma antica che ancora riecheggia nell’arte, nel cinema e soprattutto nello sport.
Mettere in gioco la vita
Chi erano i gladiatori? Lo ricorda in maniera molto dettagliata l’autrice che questi altro non erano che prigionieri di guerra, criminali, schiavi e talvolta volontari, pronti a mettere in gioco la propria vita per guadagnare fama, onori o semplicemente una seconda possibilità.
Impressiona molto la dedica con cui si apre il libro al lettore: alla memoria di tutti gli animali, le donne e gli uomini perseguitati e uccisi negli anfiteatri. Riporta la mente alla forza attrattiva esercitata dai giochi gladiatori sulla folla. Un fascino cui è stato difficile sottrarsi anche dopo l’avvento del Cristianesimo.
Il popolo amava troppo gli spettacoli per potervi rinunciare, fossero lotte tra gladiatori, battute di caccia – venationes – o simulazioni di imponenti battaglie navali – naumachiae. La sete di sangue era così intensa che si giunse ad allestire rappresentazioni teatrali sostituendo all’attore professionista un condannato alla pena capitale, così da vederlo morire realmente. E allora Campanelli si chiede come sia stato possibile che una civiltà tanto razionale e pragmatica come quella romana, fondata sul diritto e dove ogni azione doveva essere basata sul fondamento, abbia fatto della violenza gratuita su animali e uomini una forma di svago. Impossibile credere che tutti i romani fossero affetti da un disturbo sadico della personalità, eppure le grandi mattanze di belve, i supplizi pubblici e soprattutto i duelli cruenti tra uomini rappresentavano il passatempo preferito, finendo per diventare anche un potente strumento di condizionamento ideologico e di propaganda politica. Inoltre l’autrice sottolinea che, nella cultura del tempo, la compassione era sinonimo di debolezza. Gli spettacoli cruenti erano parte della vita quotidiana e sottoporre un condannato a castighi feroci era considerato iustum, ovvero «conforme alla giustizia», oltre che avere un’importante valenza educativa e formativa per l’intera comunità.
Da voto a intrattenimento
Le prime esibizioni di gladiatori si tennero a Roma alla metà del III secolo a.C., ma al tempo non erano ancora quella grandiosa e avvincente forma d’intrattenimento pubblico che avrebbe ammaliato fino allo stordimento il popolo in età imperiale. Ricorda l’autrice che i giochi gladiatori derivano da una pratica di carattere sacro e privato strettamente connessa al mondo dei morti. Il duello cruento era un omaggio offerto al defunto dai propri eredi in occasione dei ludi novendiales, i giochi funebri che chiudevano il periodo di lutto della durata di nove giorni. I numera – giochi gladiatori – prima di trasformarsi nel genere di intrattenimento più diffuso e gradito dalla plebe, rappresentavano un voto, un impegno solenne verso gli dèi e il defunto, nella convinzione che il sangue umano versato sulla tomba riconciliasse la vita terrena con l’aldilà. Una tradizione già in uso nell’antica Grecia. Il popolo romano assistette per la prima volta a uno spettacolo di gladiatori nel 264 a.C.
Negli stessi anni in cui comparvero i duelli gladiatori prese forma un altro genere di attrazione: la venatio, letteralmente «battuta di caccia». In realtà, rimanendo nell’ambito degli spettacoli, con questa parola gli antichi indicavano un’ampia serie di performance con animali, dalla semplice sfilata di specie esotiche come struzzi, giraffe, ippopotami e coccodrilli, al combattimento tra le belve, fino alla caccia nelle arene. A differenza dei numera, le cacce non avevano alcun valore sacrale e si configuravano piuttosto come un’attrazione strettamente connessa alla guerra di conquista e alla vertiginosa espansione dell’Urbe dalla penisola italica all’intero bacino del mediterraneo, eventi che permisero ai romani di entrare in contatto con animali esotici e sconosciuti.
Secondo i calcoli effettuati nel 2012 da Elliott Kidd, la perversa attrazione per le venationes avrebbe condotto, in cinque secoli di spettacoli, allo sterminio di circa due milioni e mezzo di animali in tutto il territorio dell’impero.
Le naumachiae erano il più costoso e scenografico genere di spettacolo che gli antichi potessero concepire, capace di riesumare e far rivivere episodi bellici di epoche passate, con la differenza che gli attori che prendevano parte maneggiavano armi reali e spesso morivano davvero. Esisteva anche una forma d’intrattenimento che Campanelli descrive come solo in apparenza molto diversa, segnata da un carattere di crudeltà ancora maggiore: le esecuzioni capitali. Non l’uccisione di un detenuto sulla pubblica piazza ma di vere rappresentazioni teatrali con tanto di canovaccio narrativo, maschere, costumi di scena, effetti speciali e accurate scenografie. Solo che a interpretare tali farse non erano degli attori professionisti, bensì donne e uomini torturati fino alla morte.
I gladiatori non erano solo dei «barbari» provenienti da nazioni selvagge fatti prigionieri e ridotti in schiavitù, molti di loro erano anche dei provinciali, altri giungevano persino dalla penisola italiana, Roma compresa, ed erano di condizione libera, sebbene in misura minore.
Disagi e privilegi
Entrando in una famiglia gladiatoria, tutti i combattenti, seppur con qualche eccezione, erano obbligati a risiedere all’interno delle caserme, dove tanto gli schiavi quanto gli uomini liberi venivano sottoposti alla rigida disciplina imposta dal lanista – istruttore o proprietario di una scuola gladiatoria – e a un regime di sorveglianza più o meno restrittivo. Il ludus era dunque un luogo molto più simile a una prigione che a una caserma e chi tentava di fuggire o di ribellarsi doveva tollerare la detenzione e subire pesanti punizioni corporale come la flagellazione e il ferro rovente. La vita quotidiana all’interno dei ludi non era solo faticosa, ma anche scomoda. Lo stesso alloggio – di fatto una camera detentiva di non più di 10-15 metri quadrati, nel migliore dei casi 20 metri quadrati circa, sottolinea Campanelli – era occupato contemporaneamente da due o tre uomini, il più delle volte era privo di finestre e gli archeologi sostengono che non fosse nemmeno dotato di veri letti ma solo di giacigli di fortuna messi a terra.
D’altra parte, ricorda l’autrice, il disagio veniva compensato con una serie di servizi solitamente negati alla plebe urbana, a partire dall’assistenza medica. I gladiatori avevano a disposizione medici ma anche unctores, ossia i massaggiatori sportivi, che avevano il compito di ridurre la tensione muscolare e accelerare la guarigione delle contratture.
Per quanto strapazzati, i gladiatori dovevano rendere il massimo dal punto di vista fisico, diversamente il lanista non avrebbe potuto ricavarne alcun profitto. Persino la dieta meritava un’attenzione particolare e a giudicare dal vitto si direbbe che il fisico dei gladiatori non fosse particolarmente muscoloso e asciutto come ci si aspetterebbe da un atleta. A dispetto delle durissime condizioni di vita, sottolinea Federica Campanelli quanto sia in realtà plausibile che questi uomini si nutrissero in maniera più che abbondante e con regolarità, assumendo cibo volto a favorire un buon apporto calorico e lo sviluppo di uno strato di adipe che li proteggesse dai colpi di arma da taglio cui erano esposti.
Niente paragoni
L’apertura al Cristianesimo da parte dell’impero sotto Costantino non ebbe effetti immediati sui numera, che continuarono a essere messi in scena almeno fino al principio del V secolo d.C. Al tramonto dei numera concorsero soprattutto ragioni di ordine economico, il venir meno di prigionieri di guerra – principale fonte di reclutamento dei gladiatori –, il mutato atteggiamento delle autorità pubbliche e anche il decadimento strutturale di teatri e anfiteatri. Campanelli ricorda come l’aggressività è un impulso ancestrale, insito nella natura stessa dell’uomo, e ha costituito la prima «arma» quando gli uomini hanno dovuto combattere contro le altre creature viventi del pianeta per sopravvivere.
Ancora oggi sono milioni i seguaci di discipline sportive caratterizzate da competizione e una buona dose di aggressività, esiste tuttavia un’enorme differenza rispetto al passato: i combat sport come karate, boxe, arti marziali e wrestling mettono in scena una violenza solo simulata e anzi aiuterebbero a conoscere il proprio «lato oscuro» e a gestire gli impulsi aggressivi. Nessun atleta contemporaneo rischierebbe menomazioni e finanche la vita per una professione miserabile, ciononostante si ha la tendenza a comparare la figura del gladiatore con le prodigiose stelle dello sport.
Dall’analisi di Campanelli emerge come, in realtà, i gladiatori erano poco più che scarti umani da dare in pasto all’arena, nulla a che vedere con il patinato e redditizio mondo sportivo attuale, soprattutto calcistico. Il mestiere del gladiatore non dava alcuna garanzia economica, quindi gli atleti moderni hanno davvero poco da spartire con i gladiatori.
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