Una stupefacente avventura, quella raccontata in “Kabloona”” dal francese Gontran de Poncins che per oltre un anno – alla vigilia della prima guerra mondiale – visse fra gli eschimesi del Canada settentrionale. La scoperta di un universo distante, ma anche di se stesso…
Riduttivo parlare di viaggio, di spedizione, di permanenza, di cambio di prospettive. Siamo dinanzi a un’avventura in piena regola, un’avventura stupefacente, raccontata con una scrittura che ipnotizza. Chi, come me, si accostasse con scetticismo alla lettura di una sorta di diario di vita quotidiana fra gli eschimesi, farebbe in fretta a disintegrare i propri dubbi e a godersi il piacere della lettura. Kabloona. L’uomo bianco (332 pagine, 24 euro) è l’ennesima chicca ripescata dalla casa editrice Adelphi. L’ha scritto il visconte Gontran de Poncins (suoi anche i disegni e le foto all’interno del volume), un reportage della fine dagli anni Trenta in zona artica, l’ha tradotto Marco Rossari. Giornalista e avventuriero, l’autore francese pubblicò il volume prima negli Usa, nel 1941, e solo sei anni dopo in patria. In Nord America, ormai, questo libro è un classico della letteratura di viaggio: racconta della convivenza di oltre un anno con gli inuit del Canada del nord, un’esistenza condotta fianco a fianco, imparando i rudimenti linguistici, i significati dei gesti, i modi più elementari per l’alimentazione e la sopravvivenza (pescare e cacciare), osservando la costruzione degli igloo, partecipando insomma alla vita quotidiana, fra incontri singolari (anche quello con un sacerdote, il missionario francese padre Henry…), massimi sistemi e dettagli prosaici.
Esperienze al limite
Lontano dal mondo che sta scivolando nell’inferno della seconda guerra mondiale, nel gelo assoluto della zona artica, con temperature che riescono ad arrivare ai cinquanta gradi sotto lo zero, Gontran de Poncins, con prosa chiara ed elegante, osserva ed evoca le slitte e le mute, i lumi ad olio, le pratiche alimentari (quanto pesce crudo, congelato per tempo…), ma anche il dna identitario degli indigeni, gioviali e malinconici, i nomadi inuit che in piccoli gruppi si spostano alla ricerca di cibo o in corrispondenza del cambio delle stagioni. Vive tante esperienze al limite, oscilla fra critiche agli usi e costumi (alcuni piuttosto libertini agli occhi dell’ospite europeo…), qualche cliché da europeo figlio del colonialismo e il tentativo sincero di immedesimazione, Gontran de Poncins, senza coltivare a tutti i costi il mito della ricerca dell’intatta autenticità.
Lezioni apprese
Nel grigio e nel bianco della neve, in uno spazio temporale che gli sembra un’implacabile età della pietra, l’autore di Kabloona (che significa, per l’appunto, “uomo bianco”) fa i conti con fatiche disumane e impiega parecchio tempo prima di entrare in sintonia con quello che è certamente il popolo più singolare che abbia mai conosciuto, un popolo di arcaici primitivi, un popolo felice, nonostante le apparenze e le oggettive difficoltà con cui fanno i conti nel proprio territorio. Gontran de Poncins finisce per fare i conti con se stesso, conoscendosi meglio, lontano dai comfort di Parigi, e finendo per raggiungere equilibri e sollievi, quiete, comprendere esistenze altrui, quelle dei brutali eppure spirituali inuit, e arcaiche civiltà, per ragionare in un certo modo sulla propria vita, per cambiare mentalità e lasciare il cuore in quella landa desolata e ignota dell’estremo nord…
Ero in pace con me stesso; e di tutte le cose al mondo la più rara è di sicuro un essere civilizzato in pace con sé stesso.
Tra le lezioni che apprende ci sono certamente la pazienza, la lentezza, l’altruismo, la mentalità eschimese, così distante da quella europea, l’umiltà. Mettendosi alle spalle frivolezze, arroganza e pensieri mediocri.
Lì fuori nel mondo ero stato ridicolmente capace di gonfiarmi fino al punto di riempire una città: qui ero polvere. Niente ti conferisce umiltà come le distese artiche.
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