Due sorelle tornano nel kibbutz in cui sono nate e dove non credevano di metter più piede nel romanzo “Finché non tornerà la pioggia” di Saleit Shahaf Poleg. L’eden perduto dei pionieri dello Stato d’Israele e un segreto di famiglia si intrecceranno con le loro storie, tra dramma e ironia. Un altro tassello della nostra rubrica Area 22, sulla letteratura e cultura ebraica
La siccità che si intuisce fin dal titolo in copertina… svanirà. Ma non è questo che vi interesserà sapere dalla prima all’ultima pagina dell’acclamato romanzo di debutto dell’israeliana Saleit Shahaf Poleg, Finché non tornerà la pioggia (235 pagine, 18 euro), tradotto dall’ebraico da Raffella Scardi, voce italiana di Eshkol Nevo e di tanti altri libri, uno su tutti Per lei volano gli eroi di Amir Gutfreund, sempre Neri Pozza, come tutti questi titoli.
Tornare indietro
Proprio non riesce a capire perché le persone si complichino la vita. Invece di prendere la strada dritta fanno delle deviazioni, invece di scegliere quello che hanno sotto il naso vanno in cerca di avventure.
Una dozzina d’anni senza piogge nella pianura di Jezreel e nel kibbutz dove sono nate due sorelle andate via, con l’intenzione di non tornare. Invece fanno la strada a ritroso. Inizia così il romanzo di Saleit Shahaf Poleg. Yaeli rientra da Tel Aviv, con un pancione, con una creatura in grembo (figlio del marito o di un amante) che rischia di nascere con una malattia genetica, e l’obiettivo di trasformare in un b&b una casa ereditata da una zia. Gali arriva addirittura dal Canada, ufficialmente per sposarsi nel cortile di casa, all’ombra di un certo albero, per coronare il suo sogno d’amore; sogno che però non sembra essere quello del futuro marito. Entrambe hanno fatto i conti con la storia del luogo in cui sono cresciute, senza capirlo davvero, probabilmente.
Gali davvero non capisce. Ci prova ma le è impossibile comprendere la mitizzazione di quel posto, di quella valle che rappresenta l’apice della realizzazione del sionismo e dei suoi valori.
Fardelli e segreti del passato
Attorno a loro, a perdita di sguardo, una terra non più fertile, il passato con i suoi fardelli, le generazioni passate che non guardano di buon occhio chi torna o, in genere, chi arriva, perché quasi diventata una moda vivere in campagna e magari lavorare in una realtà urbana. Egoismi, risentimenti, corruzione, ripicche, fardelli del passato e del presente. Il kibbutz è un eden perduto, il tempo si è apparentemente fermato, ma i vecchi ideali sembrano in gran parte evaporati, spesso non più al passo con i tempi. E non se la passano bene neanche gli Shteinman, ovvero la famiglia d’origine di Yaeli e Gali. Oltre agli equivoci, ai misteri e agli inganni del microcosmo che li circonda, ci sono vecchi segreti all’interno delle mura di casa, con cui fare i conti.
Una speranza
Oltre il dolore e il caos, oltre il dramma e l’ironia, Saleit Shahaf Poleg – con un linguaggio fresco e più punti di vista – non dimentica però di dare una speranza ai suoi personaggi e a chi legge. Cosa ne è del progetto dei padri fondatori, degli obiettivi del sionismo, sono almeno un paio di interrogativi che riecheggiano nel corso di gran parte del romanzo. Ed è uno di quei casi in cui le domande sono più importanti e meno scontate delle risposte.
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