In “Igiene dell’assassino” Amélie Nothomb imbastisce un valzer di botte e risposte – protagonista un immaginario Nobel per la letteratura prossimo alla morte – che quasi non fa alzare il naso dal libro e trascina in un vortice al di là del bene e del male
Galeotto fu un viaggio e la mia invincibile paura dell’aereo, che tento di ingannare con la lettura come si inganna la fame mangiando una mela. La fame non passa e neanche la paura, ma in questo caso ho assaporato un gusto dolce-amaro, come le more di un pomeriggio infantile, quando il sole abbaglia ma i sogni non sono ancora infranti.
Igiene dell’assassino (159 pagine, 13 euro) di Amélie Nothomb, edito da Voland, è un romanzo che si impone alla curiosità del lettore, e che non smetterà di riecheggiare nei meandri dell’Ade della mente, lì dove vanno a cercare rifugio le domande senza risposta, che sono le uniche per cui valga davvero la pena interrogarsi.
Per la prima volta, dopo decine di recensioni, ho avvertito la tentazione di condividere la trama originalissima di questo libello stupefacente, ma “non debemus, non possumus, non volumus”, come direbbe Pio VII. Ai lettori costa la fatica di Napoleone, ma sin dall’incipit (per chi già non lo avesse letto) sarà chiaro che da questa battaglia non si vien fuori illesi, ma è una buona battaglia .. senza pena di smentita.
Il talento di Mr. Ripley
Svelerò quel tanto che basta per suscitare la curiosità che questo libro merita, come la caviglia delle dame del Settecento, che ingolosiva enormemente di più della sovraesposizione di carne che oggi inebetisce (e rammollisce).
Prétextat Tach, premio Nobel per la letteratura, sta per rendere l’anima a Dio o al demonio – nessuno può sciogliere questo nodo senza conservare un ragionevole dubbio – e apre le porte del suo antro a giornalisti famelici di spartirsi le sue spoglie. Amélie Nothomb imbastisce un valzer di botte e risposte in cui, lo confesso, mi sarei persa per giorni, senza alzare mai il naso dal libro. I guizzi geniali del protagonista mi hanno rapita voluttuosamente, come poche volte mi è capitato, forse solo Le lettere di Berlicche di C.S. Lewis ha catturato in maniera altrettanto potente la mia attenzione.
Chi ha gustato sino all’ultima scena il capolavoro di Anthony Minghella amerà certamente Igiene dell’assassino, perché Tom Ripley e Prétextat Tach rappresentano quanto di più lontano dall’immaginario eroico, e proprio per questo attraggono inesorabilmente il lettore, trascinandolo in un vortice al di là del bene e del male, dove non si riesce più a distinguere dove finisca l’Umano e dove inizi l’Abisso.
Un disperato bisogno d’amore
Anche quando mangi per dolore
E nel silenzio senti il cuore
Come un rumore insopportabile
E non vuoi più alzarti
E il mondo è irraggiungibile …
Così poeticamente cantava Paolo Vallesi (in anni in cui i Ferragnez erano ancora meravigliosamente lontani) e così il protagonista del romanzo di Amélie Nothomb cerca nel cibo, non uno sfogo alle frustrazioni ma, con drammatica ironia, uno scopo a giornate caparbiamente sempre identiche a sé stesse.
Nessun nemico peggiore potremmo mai trovare di colui che vediamo riflesso in uno specchio, e maggiore è l’accanimento tanto più l’anima brama un sorso d’amore.
Prétextat Tach ripudia ciò che anela e per farlo si convince di non avere più desideri, e quasi arriviamo a credergli, ma è un attimo, un soffio di fiato, perché la vita palpita anche quando vorremmo spegnere l’interruttore e, come ci ha insegnato quel genio rancoroso di Arthur Schopenhauer, nulla attesta la Volontà di Vivere più del tentativo di privarsene.
Alla fine del libro, pur in preda a sentimenti contrastanti, si vorrebbe quasi che il protagonista di Igiene dell’assassino fosse un personaggio reale, per poterlo guardare negli occhi e chiedergli: “Rifaresti tutto daccapo?”
Chissà cosa risponderebbe.
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