È un romanzo intriso di sicilianità, e a suo modo politico, “Pelleossa”, il terzo di Veronica Galletta, ambientato in un paese immaginario un po’ di sale e un po’ di terra, Santafarra. È un dramma con intarsi da commedia e colpi di scena, protagonista un bimbo diverso dagli altri, negli anni Quaranta, quelli dello sbarco degli americani nell’Isola. Paolino, questo il nome del piccolo, trova ascolto e amicizia solo in una serie di personaggi irregolari…
In Pelleossa (345 pagine, 18 euro), il nuovo romanzo di Veronica Galletta pubblicato da Minimum fax, si fa ingresso un po’ come a teatro: c’è bisogno di abituarsi allo spazio di questo libro, di imparare a riconoscerlo. Ad accogliere il lettore c’è un micro-mondo denso di personaggi – l’utile guida che anticipa il primo capitolo aiuta non poco a orientarsi – e c’è soprattutto un universo linguistico che connota il tempo del racconto – siamo nel 1943 – offrendo una lingua che si intreccia al siciliano e si fa come tridimensionale. Per scoprire le vicende di Paolino ed entrare con lui nella storia, e dentro la sua testa, è quindi necessario un salto di fiducia. Fiducia che sarà ampiamente ripagata.
Delle ingiurie, e dei loro echi di storie
L’elenco dei personaggi, suddivisi per famiglie, che anticipa l’avvio vero e proprio della storia ha qualcosa di pirandelliano. E sì che Pirandello, poi, ci sarà per davvero. Ma andiamo con ordine: Pelleossa è un romanzo intriso di sicilianità (non è una scoperta, lo rivela infatti l’autrice con le fonti finali che l’hanno ispirata): lo è nella lingua, come già detto, ma soprattutto nel gioco dei pupi e delle maschere che si respira da subito nel paese di Santafarra, dove si svolge la vicenda. I volti e le storie di chi è di scena si adombrano con le ingiurie che da sempre si appicciano come etichette alle famiglie e ne proiettano un’anteprima sociale, nascondendo o, viceversa, evidenziando episodi che, sprofondati spesso nel passato, continuano a vivere nel silenzio e nella solida certezza di un nomignolo.
In questo intarsio di ombre Paolino, sette anni all’inizio del romanzo, riconosce alcune dinamiche, nelle quali è coinvolto e che vive intorno a sé, ma ne ignora le regole. Ha capito che hanno a che fare con il mostrarsi e il nascondersi, e ha intuito anche che l’ingiuria della sua famiglia – Pelleossa – c’entra qualcosa, perché dietro a questi appellativi si nasconde sempre una storia altra. Prova a guardare il mondo dall’alto arrampicandosi sul suo “alivo saracino”, ma anche osservando Santafarra da lì non sa spiegarsi la doppiezza di questo paese, un po’ di sale e un po’ di terra, e non trova un posto adatto a sé. A Santafarra il mondo è diviso e per questo sembra semplice: o bianco, o nero. Paolino capirà però che esiste un territorio del grigio dove le persone si rivelano sconosciute sotto la coperta dell’ingiuria, e dove tutto è più complicato, e il senso delle cose anche terribili che accadono – e delle storie passate e trasformate in nomignoli – va ricercato, a volte taciuto. È un dramma con intarsi di commedia – ed ecco un sottile eco pirandelliano – nei tanti personaggi che appaiono e scompaiono, e cambiano volto e ruolo con colpi di scena che sono sapientemente distillati di capitolo in capitolo, così che il romanzo acquisti forza, ampiezza e profondità.
Come un incantesimo
C’è un mistero, anzi una treccia di misteri da svelare dietro questa storia che ci accompagna per alcuni anni, dal 1943 fino alla Liberazione e poco dopo, insieme al percorso di crescita e consapevolezza di Paolino. Pelleossa di Veronica Galletta (qui un articolo che ha scritto per noi) è infatti anche una storia di formazione e accompagna la crescita del bambino. Quando arrivano in Sicilia gli americani, nel luglio 1943, la Santafarra di Paolino è come avvolta in una nicchia della storia per lui: lontano dai fatti importanti e immerso in un mondo di detti e non detti, Paolino non sa della Resistenza armata, di Mussolini e dell’Armistizio, ma osserva i faccendieri locali pronti ad adattarsi al vento come banderuole intuendo quella complessità che si rivelerà essere la chiave di un mondo adulto.
Il bambino sa di muoversi intorno a qualcosa che non si vede, ed è forse questa la nervatura più interessante del romanzo: il mondo visto da occhi solo apparentemente ingenui, di quell’ingenuità tipica dell’infanzia, che sa di sguardo antico e al contempo magico. È il tratto che rende Paolino diverso da tanti altri bambini, lui con la sua sensibilità speciale, lui che sta male per gli altri e che dondola le parole per cercare di smorzare il dolore dei dubbi, la sensazione di essere estromesso e di arrivare sempre per ultimo.
Anche Paolino ha un nomignolo tutto suo, Ncantesimo. Di lui si dice che “aspettava la parola dei vivi e il ritorno dei morti, in un modo tutto suo, come di chi aspetta senza aspettare”. Spesso solo, il bambino sembra perso dentro uno spazio tappezzato di silenzi che tuttavia sono pieni di parole e dialoghi. Per questo sembra ncantesimato: si estrania, come vivesse in un altrove solo suo, e a volte sembra farsi di pietra davanti alle cose storte che incontra, ed entrare in un mondo di pensieri che solo lui può vedere e sentire, anche se capirà presto che la pietra non è muta e silenziosa come sembra. Per questo intuito speciale, è l’unico personaggio a poter dialogare con chi, a Santafarra, sembra essersi costruito un guscio protettivo per resistere agli attacchi della vita e allo stesso dolore che percepisce Paolino.
Entrare nella testa
Filippu il pazzo, per esempio. Insieme a Paolino, è uno dei personaggi di Pelleossa che più restano nella memoria del lettore. Proprio come fa il bambino grazie all’incantesimo dell’infanzia, attraverso una visione laterale e del tutto speciale e unica Filuppu fornisce una chiave di accesso alternativa al mondo di Santafarra e una lettura degli avvenimenti profondamente umana, piena di dubbi. Filippu vive in una sorta di giardino incantato dove si sbizzarrisce a scolpire teste umane, con l’obiettivo di ritrarre tutta l’umanità, o forse solo di trovare il suo senno – la sua testa – persa anni prima in America. Se dapprima appare come un giardino mostruoso, territorio “del pazzo” e dunque campo per prove di coraggio, per Paolino si trasformerà presto in un giardino rifugio dove trovare un amico, e imparare a leggere il mondo da una prospettiva inedita.
Nel cerchio di teste che raggruppano Garibaldi, il Re, ma anche Pirandello e Freud, Paolino troverà degli interlocutori un po’ fantastici e un po’ sognati. A lui, “diverso da tutti, uguale a nessuno”, le teste parlano. Sarà così per tutti? In un mare di non detti da interpretare per restare a galla, Paolino esplora, timoroso e tuttavia forte di una sicurezza che ha maturato da solo, cercando la verità e costruendo un mondo mentale tutto suo dove, guarda caso, le teste del pazzo, diventato amico fidato, dialogano con lui dando consigli ed esprimendo i loro diversi punti di vista.
Ma se il desiderio di verità in Paolino supera le barriere della diversità e persino l’impassibilità della pietra, fattasi testa parlante, la trasparenza non è del mondo di Santafarra, dove per capire a volte bisogna scendere nelle grotte, scavare sotto la terra sporcandosi le mani e lì ritrovare un silenzio carico di visioni e di fatti che consentirà di capire, crescere, e dunque imparare a stare a galla.
Il mondo dei deboli
Nei suoi rovelli inespressi, Paolino si sente estraneo al mondo e trova ascolto e amicizia in una serie di personaggi non conformi che sembrano gli unici, in questo romanzo di Veronica Galletta, dotati di sensibilità e sentimenti e disposti ad accogliere i suoi dubbi di bambino e un sentimento di umanità percepito come scolorito. Lo sono anche se menomati di qualcosa: la lucidità, la capacità di leggere, la vista, l’udito. È così per Filuppu, “scultore di umanità” in pietra, preso da momenti di confusione e da altri di vivido senso delle cose, ma anche per Zu ntoni, sordo e cieco, che tuttavia ne sa sempre più di Paolino, o per Ciccio, il fratello ritardato dalla malattia che percepisce onde di una realtà nascosta sotto il tavolo.
Inseguito dai fantasmi che la sua famiglia ha sotterrato, e dai tanti che compariranno e scompariranno in questa storia, dove il dramma è parte della quotidianità, Paolino fa esperienza del doppio volto delle cose mentre incontra – e si scontra con – storie di deboli, sfruttati, vittime arrese e impara il mondo, il suo mondo. Nel dolore e nell’etichetta appicciata alla propria famiglia e a sé, fa esperienza dello strappo tra miseria e ricchezza, tra morti e padroni. Per questo Pelleossa di Veronica Galletta è anche un romanzo politico che racconta una società e il suo tempo nella tensione di una voglia di riscatto, verità e cambiamento che deve fare i conti con una serie di vincoli.
Dalle prove di coraggio dei bambini all’omertà dei paesani, Paolino trova un suo equilibrio instabile nel dialogo con chi, non conforme, è diverso dalla gente che sa e non dice, e proietta su di lui l’ombra di un passato che ignora e da cui è indifeso. Dai sette ai dieci anni: l’arrivo a un numero con due cifre nell’età di Paolino accompagna perdite, dolori, ma anche forza e consapevolezza nuove nella testa di un bambino che, vuoi per pura magia o per la genuina bellezza dell’infanzia, riesce a “sentire” le teste dei grandi e, dall’alto del suo ulivo che domina su Santafarra, trova un suo particolarissimo spazio in un mondo a volte troppo storto.
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