Torna Paolo Zardi ed è… una festa. Da domani, 15 novembre, sarà in libreria “La meccanica dei corpi” (170 pagine, 15 euro), il nuovo libro di Paolo Zardi, pubblicato da Neo edizioni: quattro racconti lunghi e uno breve, che ruotano tutti intorno allo stesso nucleo narrativo: i corpi umani. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore vi proponiamo le prime pagine del quinto e ultimo racconto della raccolta, “Il signor Bovary”. Buona lettura
Si era fatto l’amante in febbraio, mentre sua moglie era al settimo mese della seconda gravidanza e la figlia maggiore aveva finalmente abbandonato il pannolino. Sebbene non si fosse organizzato per averne una, non poteva neanche dire di essersi opposto a quella relazione: mancava il dolo, ma c’era la colpa, o una stupida mancanza di accortezza, o, forse, la tracotante convinzione di essere impermeabile ai sentimenti. L’amante si chiamava Orietta, l’unico nome che ancora ricordo, e, come si usa in questi casi, aveva dieci anni meno di lui, era più povera, meno istruita e un po’ sovrappeso. Si erano conosciuti in filiale: lui era il direttore, un uomo severo con i dipendenti, gioviale coi clienti, servile con il capo area; lei era l’addetta alle pulizie e socia di una cooperativa che aveva vinto un appalto a condizioni particolarmente inique. Erano i tempi dell’euro, della libera concorrenza, della mano invisibile che cambiava i nomi alle cose (“fluidità del mercato del lavoro” aveva preso il posto di “precarietà” e le “opportunità” nascondevano una disperata “lotta per la sopravvivenza”). L’aveva notata la prima volta a dicembre, quando una pratica di fido particolarmente rognosa – cliente senza soldi ma con parenti in Parlamento – l’aveva tenuto al lavoro fino alle sette di sera. C’erano altre cose degne di nota, quel giorno? Sua figlia, quella già nata, aveva la tosse e un paio di linee di febbre; il piccolo, che era ancora una specie di pesce dal sesso indefinito (l’ecografia l’aveva sorpreso/a con le gambe chiuse), aveva iniziato a scalciare nella pancia di sua moglie. Ecco, una zia – una prozia in realtà, sorella centenaria di suo nonno – l’aveva chiamato per augurargli buon onomastico, e questo dettaglio garantiva l’esatta collocazione temporale dell’inizio di tutta la storia. La filiale era deserta e fuori, sulle strade buie della città, nevicava, particolare talmente ovvio da risultare inverosimile. Lei aveva un camice azzurro con il colletto bianco, una molletta sui capelli chiari, un tatuaggio a forma di farfalla che si intravedeva sulla nuca, occhi chiari e umidi. Gli auricolari infilati nelle orecchie le impedivano di sentire il proprio respiro che la fatica del lavoro – stava lavando il pavimento – aveva reso simile a un rantolo. Quando si erano visti, lei un po’ sorpresa, lui indaffarato, si erano salutati con una specie di sorriso: Orietta aveva denti bianchi, quasi perfetti – solo un canino leggermente ruotato; lui, una smorfia convenzionale, paternalistica, ottocentesca, da Papa. Non si erano parlati, perché lui aveva continuato a cercare il modo di rendere accettabile quella richiesta di fido, e lei non voleva disturbarlo. I prestiti impossibili erano la sua specialità. Aveva un’inclinazione naturale per il sotterfugio, l’imbroglio a norma di legge. I clienti lo ringraziavano in tutti i modi in cui era lecito, o non illecito, ringraziare, e lui faceva carriera. Erano rischi calcolati, quel genere di scommesse truccate che finiscono sempre bene: se si vince, vinco io; e se si perde, perdi tu. Politica, insomma. Non si era neppure accorto di quando Orietta aveva spento le luci e se n’era andata. Alle nove di sera uscì anche lui. La città era imbiancata. C’era un freddo medievale. Ricordo ancora l’odore della neve.
Anche lei era sposata. Il marito era il presidente della cooperativa di pulizie per cui lavorava. Lei diceva che era un uomo furbo e freddo, e quando una volta – erano già amanti da qualche mese – aveva usato l’aggettivo anaffettivo (leggeva un libro su donne che amano troppo), lui le aveva dato un bacio sulla fronte, commosso per quella parola così ricercata. La vita amorosa di quella donna era una sequela di banalità imbarazzanti: lei e il marito si erano conosciuti in discoteca quando lei aveva sedici anni e lui ventitré, avevano fatto l’amore in una Golf bianca la seconda volta che si erano visti, tre anni dopo si erano sposati (lei una bomboniera, lui con il cilindro grigio in testa), ma poi lui era diventato manesco, e lei aveva perso un figlio; successivamente, lui si era abbonato a Mediaset Premium, lei si sentiva incompresa, lui giocava a calcetto tutti i giovedì, e lei intanto chattava su Facebook. Credeva nell’amore, quello con la A maiuscola, ma non l’aveva mai trovato. Amava i tatuaggi, specialmente quelli nascosti. Voleva avere tanti figli, e una cucina con un grande forno in cui preparare delle splendide torte. Aveva calli alle mani; sua madre era morta di cancro quando lei aveva tredici anni, suo padre non si era più ripreso, suo fratello rubava motorini, suo zio aveva le mucche, e via dicendo.
Lui, invece, il direttore della filiale, aveva avuto la prima ragazza a vent’anni, una compagna di corso brutta e ambiziosa che l’aveva lasciato per un notaio. A venticinque aveva conosciuto la donna che sarebbe diventata sua moglie; a ventotto si era fidanzato; a trentuno sposato. Bifamiliare nella prima periferia, superficie calpestabile centottanta metri quadri, un piano abusivo in attesa di condono. La domenica: barbecue con i genitori, una volta quelli di lei, una volta quelli di lui. Altalena in giardino. Televisore da sessantacinque pollici in salotto, da quaranta in camera, da ventidue in cucina. Abbonamento a Sky Gold. Raggio soffione doccia: venticinque centimetri. Cantina con pacchiana scelta di vini. Piccola mansarda, dieci gradi in inverno, quaranta d’estate («Dobbiamo fare qualcosa per quella mansarda»). Due posti auto. Due auto (una monovolume a sette posti e un’utilitaria da trentamila euro per fare la spesa). Vicini silenziosi. Niente gatti perché rovinano i divani. Icona russa (copia) sopra il letto matrimoniale. Serie completa di iPhone. E, da febbraio, un’amante. Ma non l’aveva cercata, non espressamente, non volutamente, di questo sono sicuro. Alcuni colleghi, sposati come lui, si erano iscritti a dei social network dove era possibile incontrare donne altrettanto sposate e disponibili a intrattenere relazioni adulterine senza alcun tipo di impegno – senza implicazioni sentimentali. Lui no. Non aveva nemmeno un account Facebook, perché, diceva, non aveva tempo per quelle sciocchezze. Amava sentirsi integerrimo, fedele, probo, disprezzava pubblicamente gli amici che si separavano, aveva la foto di sua figlia sul desktop del computer, e una foto della moglie scattata il giorno del matrimonio (abito di seta lungo, da vestale) nel portafoglio. Con il senno di poi, tutta questa perfezione plastificata e preconfezionata puntava inevitabilmente ai timidi appuntamenti di febbraio, ai focosi scambi di fluidi nel gabinetto della filiale (sei metri quadri impestati da un persistente odore di merda) a marzo, agli incontri notturni e selvaggi di aprile, a quella piccola, ridicola luna di miele (la chiamavano così, tra Il Signor Bovary 129 di loro) a Cinisello Balsamo in giugno, ai messaggini tristi delle vacanze estive trascorse in balia delle rispettive famiglie, e a tutto ciò che sarebbe successo dopo (è già il momento di prepararsi al peggio che prima o poi arriverà); ma a dicembre, il giorno del suo onomastico, mentre nevicava – nei ricordi successivi, i due metri caduti quella notte si erano trasformati in cinque – con il secondo figlio in arrivo, la pratica di fido da finire, i conti in ordine, la sim ancora senza pin, avrebbe giurato che andava bene così, che non gli mancava niente. Che quella donna un po’ ordinaria che lavava il pavimento della sua filiale era una donna un po’ ordinaria che lavava il pavimento della sua filiale, nient’altro che questo. Cinque mesi dopo, mentre lei gli pisciava in faccia nella vasca da bagno matrimoniale di un motel scalcagnato, lui, da là sotto, pregava che quell’amore durasse per sempre. (Continua in libreria…)
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