Area 22. Stefan Zweig e gli scacchi della psiche

“La novella degli scacchi” è uno dei più noti racconti di Stefan Zweig. La sfida in nave tra un campione e uno sconosciuto cela un forzato apprendistato al gioco all’ombra dell’Anschluss: gli scacchi salvano dalla follia dell’alienazione, ma condannano all’ossessione patologica. Nuova puntata della rubrica Area 22, dedicata alla cultura e alla letteratura ebraica

La novella degli scacchi è uno dei testi più noti e riusciti di Stefan Zweig, autore austriaco, convinto europeista e internazionalista, costretto come tanti suoi coevi a fuggire in esilio in concomitanza con l’avanzare del regime nazista e appartenente alla Exilliteratur, quella corrente che annovera tra i suoi esponenti Walter Benjamin, Ernst Weiss e Ernst Toller, che come Zweig decide di anticipare «l’alba» della lunga notte del totalitarismo scegliendo il suicidio. Scritta nel 1941, la novella (diventata film due anni fa per la regia di Philipp Stölzl, nei cinema italiani col titolo Il re degli scacchi) ci porta su una nave passeggeri che sta per salpare da New York, destinazione Buenos Aires; c’è fermento per la partenza. Ad un tratto dei flash segnalano la presenza di una star: si scopre che è il campione degli scacchi Mirko Czentovic il quale, conclusa la sua vittoriosa tournée di tornei negli Stati Uniti, si appresta a mietere nuovi successi in Argentina. Capiamo sin da subito che il personaggio non gode delle simpatie del narratore che lo definisce a più riprese rozzo, ignorante, ruvido; tuttavia egli è dotato di un solo prodigioso talento: sa muoversi sulla scacchiera con una facilità incredibile, un prodigio, soprattutto agli occhi di chi ne conosce gli evidenti limiti intellettuali. Insomma, un enfant prodige vestito da «asina di Balaam», a dire del parroco che l’ha allevato; un contadino che è un dio degli scacchi, ma che, alzatosi dal tavolo di gioco, ritorna goffo e tracotante.

Una mortificante partita patta

Su questa nave il caso vuole che il campione indiscusso registri una mortificante partita patta, che si palesa in maniera del tutto inattesa e singolare. In una sfida tra Czentovic e un passeggero sostenuto da diversi gentiluomini che lo circondano, sbuca dal nulla un timido signore, dalla «modestia quasi pavida», che suggerisce, una dopo l’altra, le mosse che scuoteranno la torre d’avorio su cui il campione è posto. Se Czentovic è il destinatario delle tutt’altro che lusinghiere parole del narratore, il timido dottor B., è invece più volte epitetato quale «salvatore» e «magnanimo sconosciuto». Scopriamo che è anche una persona colta, appartenente a un’altra estrazione sociale; che il suo gioco e la sua indole sono lontanissimi dal campione. Non solo: il timido avvocato non gioca più da anni, il che rende le sue abilità strategiche ancora più singolari.
È chiaro che, a un primo sguardo, la novella sembra reggersi sulla contrapposizione tra i due personaggi antitetici: da un lato il campione, che è alla ricerca della continua conferma del successo e dell’affermazione di sé, dall’altro il dottor B, che non ha nulla del campione, ma che invece si rivela essere davvero. Tuttavia, a voler grossolanamente rappresentare le dinamiche del racconto con lo schema attanziale greimasiano, ciò che appare lapalissiano a prima vista, in realtà si complica e vediamo perché.

Anschulss

Diversamente, infatti, da come una prima lettura potrebbe farci credere, il punto nodale della novella non è la sfida a scacchi tra i due contendenti, dove Czentovic ha come oggetto della sua quête la vittoria, il trionfo, e dove l’attante oppositore è costituito dal gruppo che appoggia lo sfidante McConnor prima e il dottor B. dopo, compreso il narratore omodiegetico; ad un esame più profondo emerge un dato differente e ci aiuta a comprenderlo il racconto che ci accompagna per quasi quaranta delle centonove pagine della novella (l’edizione è quella Garzanti, la traduzione di Simona Martini, prefazione di Daniele Del Giudice). Quando il narratore cerca di convincere il misterioso dottor B. a giocare contro Czentovic, questi comincia a raccontare della sua prigionia, che comincia ad una data ben precisa: il 13 marzo 1938, giorno dell’Anschulss, l’annessione dell’Austria alla Grande Germania nazista, e giorno in cui l’avvocato è segregato per mesi in una camera d’albergo, in un isolamento totale, senza nulla da leggere, senza alcuna attività da svolgere, se non quella dell’attesa, «nell’assenza di spazio e tempo», che un nuovo, estenuante interrogatorio intercali il silenzio della camera. Il racconto è scandito dalla reiterazione e dall’accumulazione degli oggetti, pochi, che sono presenti nella sua stanza-prigione ed esse contribuiscono da un lato a dare l’idea dello straniamento e dell’alienazione a cui il personaggio è condotto, dall’altro, paradossalmente, sottolineano la scarnificazione, il vuoto della stanza, che invece si contrappone alla confusa successione dei suoi pensieri, unica compagnia ammessa e incontrollabile. Apprendiamo che, grazie a un manuale di scacchi che riesce fortunosamente a rubare, le sue giornate acquistano finalmente forma e sostanza: il suo tempo ha ora una cadenza, scandito com’è dalle innumerevoli partite, reali e immaginarie, che continua a giocare in maniera sempre più insistente.

Scissione della coscienza

Egli arriva a sperimentare in se stesso una solipsistica e «totale scissione della coscienza»: per sopravvivere, si trova costretto «a tentare questa scissione fra un Io nero e un Io bianco, per non essere circondato dallo spaventevole nulla che [lo] circondava». Ecco che allora, il gioco che sembra per qualche tempo sottrarlo dal nonsenso di quella prigionia, acquista a poco a poco un’altra dimensione, va via via degenerando in ossessione, in mania, da cui solo l’intervento tempestivo dei medici lo salva. La disamina della dinamica della sua ossessione è precisa, attenta e molto probabilmente risente dello studio delle opere di Freud, con il quale Stefan Zweig coltivò una longeva relazione di stima reciproca. Il lungo racconto della sua prigionia e della sua conclusione ci mostra chiaramente che il rapporto del dottor B. con gli scacchi è fortemente ambivalente: certo, quei pedoni, quei re, quelle regine lo salvano dalla follia dell’alienazione, ma contemporaneamente lo condannano ad un’altra follia, che è quella dell’ossessione patologica. L’oggetto della ricerca del destinante-dottor B., è allora tutta dentro il personaggio stesso. Sembra quasi che Zweig voglia affermare che dalla segregazione non c’è speranza di salvezza per chi è passato dal suo crogiolo. Stefan Zweig sembra suggellare questo pensiero con le lunghe depressioni che lo accompagnano fino a quando non decide di suicidarsi insieme alla moglie, ormai convinto che il mondo in cui era cresciuto, con i suoi ideali di pace, di solidarietà, di cultura sono stati spazzati via.

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