Intervista a Domenico Scarpa, sulla genesi e sulle ragioni del suo libro-mondo, “Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore”, dietro cui ci sono un lavoro lunghissimo, interviste fantasma e casi fortuiti: “Italo Calvino era un narratore nato, ma andava contro questo suo talento, aveva un bisogno spasmodico di contrastarlo, lavorava contro la propria grazia. Gli inediti? Bisognerebbe riscoprire alcuni tentativi teatrali e anche la tesi di laurea su Conrad…”.
Un libro-mondo, questo è Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, quasi 800 pagine per un’avventura intarsiata di testi critici e risorse bibliografiche che Domenico Scarpa ha costruito per Hoepli nel centenario dello scrittore. Un’opera (se ne parla qui più diffusamente), si può dire, pressoché totale che, intrecciando biografia e analisi letteraria, restituisce la storia del farsi di uno scrittore lungo l’arco della sua vita e attraverso le correnti e i cambiamenti della sua opera. Calvino fa la conchiglia è un testo importante e originale, lavorato per appassionare il lettore non necessariamente addetto agli studi calviniani, e ricco di fili che, come trame spesso visive – tanti sono i simboli che tornano a illuminare aspetti della vita e delle attitudini di Calvino, la conchiglia del titolo è uno di questi – accompagnano alla scoperta di quella che viene presentata come una storia. Domenico Scarpa ci ha permesso di approfondire la progettazione e la scrittura del suo poderoso testo, regalandoci aneddoti e curiosità in questa intervista.
La mole di Calvino fa la conchiglia può spaventare alcuni e invogliare altri lettori. Del resto lo conferma lei stesso nella nota di presentazione: questo libro è l’esito di una ricerca molto lunga. Come nasce il volume, e quanto tempo le ha richiesto?
«Avevo una quantità enorme di materiale che ho cominciato a scrivere nel 1988: a quell’anno risale il primo nucleo di circa 200 pagine. Quel materiale è diventato, tre anni dopo, una tesi che poi a sua volta si è trasformata nel 1999 in un primo libro su Calvino. A sua volta quel testo però non comprendeva nessuno dei saggi di approfondimento che avevo scritto fino ad allora. Due anni fa, quando sono stati presi gli accordi con Hoepli, mi sono ritrovato con un mare di cose scritte e appunti davanti. L’unica cosa che avevo ben chiara a quel punto è che non bisognava assemblare niente, ma ripensare e riscrivere e ristudiare. Insomma, rilanciare tutto quanto, proprio come nel poker, ed è quindi venuto fuori questo libro enorme che, però, posso definire a buon diritto scritto tutto negli ultimi due anni, benché sia il frutto di quasi 40 anni di studio».
Per chi ha già dimestichezza con i testi analizzati, emerge da “Calvino fa la conchiglia” la voce di chi di questo testo l’ha composto. Ci si ritrova tra le pagine un po’ come in un romanzo, forse, potremmo azzardare, una storia in parte anche poliziesca, alla scoperta di come un ragazzo, poi giovane intellettuale e via via affermato scrittore, abbia camuffato se stesso lungo tutto il corso della vita. C’è una tensione che ha da sempre inseguito Calvino, tant’è che lei un po’ ci gioca anche descrivendo la sotto-trama di un’indagine grazie al tono divulgativo e ai titoli che riassumono ciò che leggeremo. Non è un giallo, eppure ci troviamo con Domenico Scarpa a cercare qualcosa, a inseguire l’ombra sfuggente di Italo Calvino…
«Mi trova d’accordo, anzi, mi fa piacere che il libro lasci questa impressione della ricerca di un qualcosa o di un qualcuno, io non lo saprei dire più precisamente. Anche perché l’ho detto in quasi 800 pagine: possono bastare! Mi piace che si senta il poliziesco, quel po’ di gioco sulla narrazione che c’è negli argomenti dei capitoli e che si rifà a una tradizione illustre che va da Cervantes ai giorni nostri. Proprio poco tempo fa mi sono accorto che gli argomenti sono fatti in questo modo anche da scrittori comici da non prendere sotto gamba, come Achille Campanile. Mi è capitato di definire Calvino fa la conchiglia come un libro di accompagnamento, sia in senso musicale sia nel senso del badare a chi non possa o non riesca a camminare: sono io che devo badare alla lingua, a quello che vedo, devo stare molto attento a quello che Calvino dice e fa».
Nel suo testo c’è una miscela pressoché unica di aspetti biografici che riguardano la vita di Calvino e di critica, una critica che scava in profondità e coinvolge il lettore. È una caratteristica ricercata?
«Questo è un libro che nasce da una complicità con la casa editrice Hoepli, c’è stato un dialogo continuo e serrato su ogni pagina, su ogni virgola, insomma su ogni elemento dell’oggetto libro e credo che si veda. La verità è che l’idea di partenza non c’era. All’inizio non sapevo ancora che cosa volevo fare, poi mi sono reso conto che esistevano due grandi direttrici – una biografica e una critica – mi sono detto allora che forse, con tutto ciò che avevo a disposizione e tutto il lavoro che mi preparavo a svolgere, potevo riuscire a fare qualcosa che non era mai stato fatto in un unico libro, cioè avere tutta la biografia lineare e tutta la critica da ogni angolazione. Non è solo critica sulle singole opere e i singoli temi di Italo Calvino: ci sono i temi e le discipline, ci sono i panorami, c’è la storia, la scienza, la politica, l’antropologia, e poi gli incontri e gli scontri, le reti di persone…».
Mi permetto di definirlo un libro-mondo…
«Le rivelerò che nel mio piccolo ho già scritto altre cose che non stanno in questo libro, perché mi sono stati chiesti degli altri approfondimenti su Calvino. Per esempio le scelte di copertina e quelle grafiche. Li si è aperto un altro mondo, piuttosto difficile da esplorare. Potremmo dire che è stato particolarmente poliziesco, ma sempre interessante!».
Un’altra caratteristica di Calvino fa la conchiglia è procedere scoprendo a volte fonti minime e inedite che tuttavia restituiscono dei guizzi unici e contribuiscono al discorso critico generale che riguarda la costruzione del “guscio” di Italo Calvino. Come ha trovato tutto questo materiale?
«Sono un autodidatta con laurea in scienze politiche, ho imparato a fare ricerca da solo leggendo e facendo collezione di Topolino da bambino, e da ragazzino facendo teatro amatoriale e cercando copioni di teatro napoletano del ‘700 e ‘800 che non si trovavano da nessuna parte. Bisognava ingegnarsi a girare per biblioteche: prima di Calvino quindi c’è tutta questa preistoria. Italo Calvino è mancato quando io avevo giusto vent’anni, e leggendo diversi articoli usciti in quell’occasione è scattato qualcosa. Era noto che in giornali e riviste, un po’ dappertutto, c’era un sacco di materiale scritto da lui che non era raccolto altrove. Dal 1985 ho iniziato quindi a cercare: non mi sono più fermato. E poi ho avuto per le mani anche casi fortuiti e fortunati».
L’immagine della conchiglia, oltre a essere affascinante, è clamorosa: riesce ad abbracciare tutto l’arco di vita di Italo Calvino e il suo percorso professionale. Come è riuscito a individuarla?
«Risale a 30 anni fa: molte delle cose di questo libro sono vecchiotte, anche se sono state ripensate e riscritte completamente. Leggendo il racconto La spirale (In Le Cosmicomiche n.d.r.) per l’ennesima volta una trentina d’anni fa, mi sembrava di intuire che fosse un’autobiografia politica e biologica, neanche troppo coperta. Mi misi d’accordo all’epoca con Marco Belpoliti per un saggio che uscì su un numero monografico di “Riga” dedicato a Calvino. Allora aveva una struttura completamente diversa: leggevo La spirale alternandola con le strofe della canzone A long time ago di David Byrne. Ne veniva fuori uno strano saggio, un po’ bislacco, un po’ presuntuoso. In questo libro invece David Byrne non ci sarebbe stato. Ho quindi eliminato, ripensato e l’ho riscritto alla luce di parecchie altre letture fatte dopo: Nabokov, Valery, Caillois, Hegel… tutte presenze che nel saggio di trent’anni fa non c’erano. Mi sembra che adesso funzioni meglio. Soprattutto, che funzioni come immagine germinale: la conchiglia è molto complessa dal punto di vista formale, ma molto immediata dal punto di vista della percezione e del linguaggio. Non è una parola difficile e l’ho voluta mettere nel titolo insieme a un verbo d’azione facile e breve, e a un articolo determinativo proprio per abbassare ancora di più il registro».
L’immagine della conchiglia diventa ancora più nitida perché accompagna e descrive tutto il processo di autocostruzione con il quale Italo Calvino cercava di nascondersi. È un gioco di specchi intrigante…
«In Calvino mi sembra di vedere un paradosso: non ce n’è uno solo, ma questo lo si vede proprio nella storia della conchiglia. Abbiamo uno scrittore che sicuramente era un narratore nato, aveva un talento naturale, una grazia e una predisposizione. Però lui non l’ha accettato, andava contro questo suo talento e aveva un bisogno spasmodico, ossessivo, di contrastarlo e metterlo in difficoltà, quindi lavorava contro la propria grazia. È un doppio movimento che nella fabbricazione della conchiglia viene fuori molto bene, secondo me. È una lotta intestina che Italo Calvino fa con se stesso».
Sono le contraintes che, non solo nel periodo dell’Oulipo, Italo Calvino applica a se stesso per definire sé e il proprio lavoro. In cosa riconosciamo questa linea di tensione nei suoi testi, in che modo ci danno le istruzioni per svelare il gioco al quale l’autore giocava?
«Delle istruzioni di Calvino per la verità – cerco di dirlo più di una volta nel libro – bisogna un po’ diffidare. Insieme a Montale per la poesia, lui in prosa è stato uno dei grandi manipolatori dei suoi stessi lettori, soprattutto di quelli di professione, dei critici. Ciò che va cercato, e che ho provato a individuare, è una possibile linea di coerenza dentro queste contraddizioni e capovolgimenti continui sui quali Italo Calvino un po’ gioca e un po’ viene giocato, perché a volte quando insiste troppo su questi capovolgimenti finisce per cadere. L’importante è coglierlo ogni tanto con la guardia scoperta nei momenti in cui si rivela. Nelle sue opere ce ne sono molti più di quanti potremmo aspettarci».
C’è un’altra immagine che ricorre, insieme alla conchiglia: l’intercapedine. Dalle prime pagine la vediamo tornare in tanti momenti della vita di Italo Calvino. È un’immagine che deriva da uno degli articoli “minimi” e inediti che lei è riuscito a trovare e che si ricollega a un’opacità sempre presente in Calvino, uno schermo, una distanza…
«Questa è un’altra cosa piuttosto strana che ho riscontrato e in cui mi sono imbattuto: per quanto molti autori possano essere famosi e le ricerche sul loro conto siano approfondite, ci sono ancora dei loro scritti, delle interviste o dei loro testi pubblicati ma sconosciuti. Anche in sedi di primaria importanza! All’intercapedine di Calvino io arrivo attraverso un articolo che, lo racconto qui e non nel libro, mi è capitato di ritagliare da un giornale. Era firmato Marialivia Serini, Calvino racconta che questa giornalista era arrivata all’Einaudi e aveva intervistato Pavese per la Stampa. Non occorreva molto per trovare l’intervista: l’avevo lì da trent’anni, con la felice scoperta che la Serini non aveva intervistato solo Pavese, ma anche Natalia Ginzburg e Italo Calvino. E l’intervista non era registrata in nessuna biografia di questi tre autori! La faccenda dell’intercapedine è stata valorizzata con letture più approfondite che mi hanno fatto rendere conto che quella parola era stata cancellata dall’inizio del Sentiero dei nidi di ragno e in ben due racconti dello stesso periodo non pubblicati. Era una parola rimasta sommersa e compariva a stampa soltanto in un’intervista. A quel punto rivelava tutto quello che c’era da rivelare».
Nel libro dedica capitoli specifici in una serie chiamata “dall’alto degli anni” al paesaggio. È un filo conduttore che conferma il ruolo centrale del paesaggio nell’opera di Italo Calvino. Parlo ovviamente del paesaggio della Liguria di Ponente e di Sanremo, un paesaggio che non c’è forse più…
«Quando Italo Calvino parla di “una visione generale e una concezione generale del mondo e della storia che dipende da come era situata casa mia” sta dicendo la pura verità. La presenza del paesaggio si può seguire fin dai testi della sua preistoria: ci sono pochi testi così Liguri come gli apologhi giovanili scritti tra il ’43 e il ’44. È stupefacente come riesca, in questi scritti, a restituire l’humus del terreno o addirittura della roccia e delle fasce, si resta disarmati, è straordinario».
Nei ringraziamenti al libro lei scherza parlando delle figurine dell’album Calvino e lasciando intendere che forse quest’album non è ancora chiuso. Cosa ci dobbiamo aspettare dopo il centenario per quanto riguarda le figurine non ancora rintracciate?
«Bisognerebbe tirare fuori dalla preistoria di Calvino il teatro e pubblicare La commedia della gente e qualche altro tentativo teatrale. Ci manca un intero spicchio che riguarda la formazione dello scrittore. Non dico di scavare nei puerilia, ma quella è una commedia che ha vinto un premio letterario e se non fosse caduto il fascismo sarebbe stata rappresentata a livello nazionale dai GUF (Gruppi Universitari Fascisti, n.d.r.). Vorremmo leggerla, così come vorremmo leggere la tesi su Conrad. È chiaro che si tratta di un lavoro universitario, ma è un lavoro universitario di Calvino, ed è bellissima!».
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