Il futbol bailado e la peggiore politica si incontrarono spesso nel Cile post-golpe degli anni Settanta. In “Valdés” Remo Rapino condensa il lungo viaggio di un ragazzino che diventa uomo, che si impone come calciatore, ma che non riuscì a mostrare solidarietà per la morte di Pablo Neruda, né seppe dire di no alle pressioni della dittatura in ambito calcistico…
Una lingua cangiante, ricca, ricercata, una lirica ininterrotta, stavolta intarsiata di frasi in spagnolo, spicca fra le pagine di un felice racconto di Remo Rapino, già vincitore del premio Campiello 2020. Una lingua esaltata dalla storia narrata, una vicenda di futbol bailado, del migliore sport e della peggiore politica che s’intrecciarono spesso negli anni Settanta in Cile: l’ignominia del golpe e l’infamia della dittatura di Pinochet trasformò stadi in campi di concentramento ed eventi sportivi in farse.
Lunghe attese
L’ennesima perla delle edizioni Tetra è Valdés (69 pagine, 4 euro) di Remo Rapino e il riferimento è a un calciatore realmente esistito, Francisco Valdés, che sarebbe diventato anche capitano della nazionale cilena, un piccoletto che riscatta gli stenti familiari, danzando in campo, lasciando molti a bocca aperta, a cominciare dal suo mentore, Garcilaso Boscán (ex calciatore per un infortunio, allenatore di periferia), che fiuta tutto alla fine degli anni Cinquanta. Buona parte del racconto è l’attesa di un provino, un lungo antipasto, le tappe di avvicinamento di un funambolico ragazzino a una prova per il blasonato club del Colo Colo, la società più titolata del Paese (in tempi recenti è un po’ in disgrazia, non vince un campionato da sei anni…). In pochissime pagine, in un serrato finale, si fa in fretta a vedere dietro quel giocatore una generazione che ha a lungo atteso la libertà e la democrazia. E poi se l’è viste portare via…
Rimorsi e farsa
La grande passione di Remo Rapino per il calcio si traduce in un racconto politico, in cui un uomo fa i conti con rimpianti di una vita: si rammarica di non essersi fatto avanti ai funerali di Pablo Neruda, di non avere esplicitato solidarietà e vicinanza urlando, come altri, «¡Estoy!»; e di aver partecipato alla sconcertante e grottesca esibizione di uno spareggio di qualificazione ai Mondiali 1974, in cui il Cile giocò senza l’avversaria designata, la nazionale sovietica, con cui all’andata aveva pareggiato 0-0. L’Urss non si presentò, «contro lo stato fascista cileno», solidale con il governo di Salvador Allende, spazzato via dal golpe, e i cileni inscenarono un ridicolo spezzone di partita senza rivali, in cui il possesso palla dei sudamericani si tradusse in un gol a porta vuota proprio di Francisco Valdés.
Le ferite di un popolo
Dietro i cliché dell’uno su mille che ce la fa, del giovane di provincia che si fa largo nella metropoli, del Davide che si fa beffe di vari Golia, c’è la Storia, ci sono le vene aperte del Cile, le ferite di un popolo martoriato…
… gli spogliatoi, le stanze dell’Estadio Nacional mutarono in luoghi di tortura, maleodoranti depositi di cuori innocenti. Dall’Estación Central partivano treni merci pieni di ruggine, di lamenti e carni ferite per Pisagua, sul Rio Mapocho galleggiavano cadaveri che non avevano trovato pace nelle fosse comuni. Ogni cosa era sbranata a Santiago. In quei giorni feroci aveva trent’anni Francisco Valdés, già la cenere della morte sembrava precocemente screziare le sue tempie. Un’amarezza di lacrime lente, salmastra e fredda, stillava sui suoi giorni, simile all’eterna pioggia che cade sulle vuote lande della Terra del Fuoco.
Il calcio cede il passo a ingiustizie, violenze e vigliaccherie. Lo stesso Valdés (che avrebbe chiamato il figlio Pablo, come Neruda) è trascinato dalla Storia e non si espone, chiede intimamente perdono a tutti, dalla patria al presidente destituito, al poeta Pablo Neruda. La paura ha il sopravvento, ma c’è la speranza, anzi la volontà di un ravvedimento: non la richiesta di un’assoluzione, ma una lettera di scuse, da indirizzare al Nobel cileno. Remo Rapino regala frasi essenziali eppure rare, un piccolo spazio di riflessione attorno a un oltraggio, una speranza dopo un episodio irreale, simbolo di ignominie senza fine, anche adesso che è trascorso mezzo secolo.
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