Folk singer scozzese, James Yorkston, si dedica anche alla narrativa. Lucido, comico e struggente il suo “Il libro dei Gaeli” racconta del viaggio di un padre, vedovo, poeta, e dei suoi figli alla ricerca della felicità o anche solo della sopravvivenza. Il destino ha in serbo per loro qualcosa di inaspettato…
Di James Yorkston è Il libro dei Gaeli, o l’amaro destino della poesia, come potrebbe essere sottotitolato il secondo romanzo dell’autore nonché cantautore scozzese, il primo edito in Italia dopo il precedente Three Cows e il memoir It’s Lovely To be Here: The Touring Diaries Of a Scottish Gent.
https://www.jamesyorkston.co.uk/, il sito internet del folk singer poco più che cinquantenne, il quale può vantare una più che ventennale carriera musicale ed elogiato a suo tempo nientemeno che da John Peel, l’influente conduttore radiofonico britannico come “il miglior cantautore della sua generazione”, e che si è spostato da qualche anno sulla narrativa. Una vocazione di cantastorie on the road che in qualche modo si riflette in questa sua seconda prova romanzesca. Il libro dei Gaeli (Jimenez 2023 298 pagine, 19 euro) traduzione di Gianluca Testani, è un romanzo d’iniziazione familiare e una road story dal sapore dolce amaro.
Attraversare l’Irlanda, inseguire un sogno
Due bambini orfani di madre vivono con il padre aspirante poeta nei pressi di una laguna invasa dalle mosche nel sud ovest dell’Irlanda, in una condizione di povertà che ricorda come ambientazione qualche romanzo del realismo francese o qualche grande affresco russo di due secoli fa. I fatti si svolgono nel 1975 nella parte sud occidentale dell’isola, a Creagh, nel piccolo centro dove Fraser Mc Leod e i due figli Joseph e Paul vivono e da lì spostandosi fino a Cork, la città portuale del sud ovest irlandese e ancora fino a Dublino, attraversano il paese all’inseguimento di un sogno. Fraser ha infatti ricevuto una lusinghiera lettura delle sue poesie da parte di un editore di Dublino e con i due figli “uno da una parte e uno dall’altra, come se fossimo ali, piegate ai suoi fianchi” inizia questa sorta di viaggio della speranza affrontato su mezzi di fortuna verso la capitale per quello che “Padre”, lo scozzese Fraser, auspica possa costituire il suo riscatto sociale oltre che il lenitivo al dolore per la scomparsa della moglie, l’irlandesissima Sineàd. “Madre” è morta annegata nella laguna. L’ironica deferenza con la quale la voce narrante Joseph appella i due genitori segnala una distanza di appartenenza fra il mondo degli adulti e quello dell’infanzia, nel caso dei due fratelli segnata dal lutto più tremendo, quello della perdita della madre.
La valigia piena di poesie che recano il titolo omonimo del romanzo di Yorkston accompagnerà i tre lungo il viaggio e diventerà una sorta di totem e simbolo stesso del girovagare e del cercare una via per la felicità. Un percorso impervio, scandito da povertà di mezzi e dalla continua ricerca di cibo e alloggio, trovandolo quando in un camper, quando in una locanda grazie alla benevolenza della proprietaria, quando in una chiesa o in pub perduti nella campagna o in fattorie isolate.
Vivere di espedienti
Sono svariati gli espedienti per riuscire a racimolare qualcosa da mangiare in questo commovente e prevedibilmente fallimentare viaggio all’inseguimento di un sogno, fino a ritrovarsi a mendicare un pezzo di pane nelle strade affollate di Dublino e pure dirsi che non è finita. Un vitalismo che ricorda, fatte le debite proporzioni, la candida ironia di alcuni dei protagonisti dei drammi sociali che affollano alcuni romanzi dickensiani, con i suoi personaggi afflitti dalla fame, dalla miseria e dalla speranza in un futuro migliore. Quella valigia piena di poesie da consegnare all’editore che campeggia in copertina ne diventa il simbolo mentre gli stralci di quelle poesie scandiscono le pagine del romanzo in modo quasi didascalico parlando dell’amore tra lo scozzese Fraser e la scomparsa moglie irlandese Sineàd, i due gaeli.
Quando ci incontrammo per la prima volta
I tuoi occhi erano spalancati e dolci.
Parlammo di
Arte, Musica, e Fotografia,
le cose importanti no?
Sicuri di conversare con qualcuno che avrebbe capito.
E la furia del mondo reale? Sst! Dimenticala!
Ti ho accennato
che volevo diventare un poeta.
“Io SONO un poeta”!
E tu hai riso
Perché conoscevi
Ogni solletico, ogni gioia
Che quella risata mi avrebbe procurato.
“Vieni con me poeta,
perché conosco un luogo
di tale bellezza
che le parole cadranno da te
come gocce di rugiada
che si stiracchiano al risveglio in un mattino di primavera”.
Un tempo e uno spazio per ricominciare
Un volume infarcito di poesia quello di Yorkston oltre che giocato molto sui dialoghi, che vi hanno una parte preponderante, quell’oralità gioiosa tipica del popolo irlandese, quel “craic” che si respira nei pub irlandesi che traboccano di chiacchiere, birra e musica, quest’ultima altra peculiarità della terra d’Irlanda e che l’autore mette in evidenza in modo pressoché naturale nel romanzo vista la sua provenienza cantautorale e che si esplicita nelle canzoni che “Padre” canticchia o che vengono passate nei pub che i tre incontrano lungo il viaggio.
Il romanzo riesce a mantenere la giusta tensione narrativa lungo le sue quasi trecento pagine e se la prima metà crea l’aspettativa di sapere come andranno le cose a Dublino nell’incontro con l’editore, la seconda parlerà di una diversa strada per il riscatto, o semplicemente per la sopravvivenza. Se non sarà la poesia a decretare la salvezza di Fraser e dei suoi figli lo sarà altro, e l’incontro con un gangster di Dublino che organizza delle gare clandestine di wrestling lo farà accadere in un modo rocambolesco e inaspettato, tanto per dirci, e il romanzo di Yorkston lo fa bene, in modo lucido, a tratti comico e struggente, che c’è sempre un tempo e uno spazio per ricominciare, spesso diverso da quello che ci saremmo aspettati.
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