Una raccolta di scritti pubblicati su rivista, “La vita scrive a matita” di Christian Bobin. Leggerla significa tornare a casa, fra i suoi temi di sempre: indagare l’invisibile e l’eternità, credere che ciò che è fragile è invincibile. Pensieri in prosa diafana e folgorante ispirati da Bach, Dickinson, Weil, Junger, ma principalmente dalla bellezza che c’è nel mondo
Contemplare l’universo da un villaggio della Borgogna. Essere un amanuense della scrittura meditativa nel duemila e rotti. Poetare di scricchiolii, evocare miracoli quotidiani e minuscoli, indagare l’invisibile e l’eternità, scansare vanità. Non è ancora trascorso un anno dall’addio a Christian Bobin, ma il suo modo di vivere e di fare letteratura è intatto, cercando e trovando Dio perfino negli atei, la luce dove non attecchisce, la felicità dove meno la si aspetta.
Ogni giorno ci viene offerto qualcosa che ci fa scoppiare di gioia il cuore, quando sappiamo vederlo.
Bobin, cristiano senza moralismi e senza dogmi, è uno scrittore contro «la miseria inguaribile dei vincitori», contro chi non si ferma a dare significato e a tirar fuori bellezza da ciò che è insignificante, convinto che ciò che è fragile sia invincibile, che «i libri illuminano le lotte che l’anima deve condurre in questa vita» e che la «vera teologia è forte come un pugno. Quando Dio è lì ci mette al tappeto».
La morte e la foglia
La casa editrice Sanpino, una delle più attente all’opera di Bobin, ha pubblicato La vita scrive a matita (237 pagine, 14,50 euro), tradotto da Emanuele Borsotti. Chi legge questo volume postumo ha la sensazione di tornare a casa, tra le parole dei suoi libri più belli. È una raccolta di contributi scritti per una rivista, nell’arco di dodici anni, in cui non mancano riflessioni sula morte, anche a partire da quella dei propri cari, del padre, ad esempio.
La morte rende la vita più grande. La fa uscire dall’inessenziale e la ricopre con una pellicola d’oro.
Bobin, per chi ancora non lo conoscesse, è capace di paragonare una foglia a un’eroina di romanzi dell’Ottocento, che cade dall’albero svenendo come se avesse sentito parole d’amore: «Il vento doveva averle sussurrato qualcosa di così sublime per cui valeva la pena morire. Il vento è il più sottile degli scrittori. La Bibbia fa di lui una delle figure più fini del Verbo».
Di Dio, di libri, di amore
Cosa si legge in queste altre sue pagine? Di Dio («La sua preoccupazione non è ciò che è perfetto, ma ciò che è vivo, vivente, radioso»), di santità («questa elettricità che si impossessa dell’anima e la lascia attonita»), di libri («Chi apre un libro ha deciso che ha ancora tutto il tempo per morire», «I libri sono le ultime chiese aperte giorno e notte»), di vita («Tutte le vite sono preziose e strazianti») e di amore. Ne scrive con uno sguardo che non è di questo mondo, lontano dal senso comune e dalla “normalità”, anti-convenzionale («La convenzione è la tomba dell’anima») in modo da attecchire per sempre nella mente di chi legge. Pensieri sparsi in prosa diafana e folgorante ispirati, di volta in volta a Christian Bobin, da Bach e Dickinson, da Weil a Junger, da Genet ad Achmatova, ma principalmente dalla bellezza che c’è nel mondo, dai modi o dalle persone attraverso cui si mostra Dio, dallo stupore e dalla purezza, da luce e respiri, dall’esempio paterno, dal sorriso di un neonato, dalla presenze silenziose, dalla fragilità che parla dell’eterno, dalla letizia, e non dalla retorica, delle piccole cose.
Parole che sbocciano
Artista essenziale, poeta della bellezza, archeologo della luce, Christian Bobin cuce silenzi e riflessioni, abbandoni e ricordi, azzarda metafore che possono apparire ardite a chi non ha letto i suoi libri, o a chi semplicemente vede scorrere la vita davanti senza vivere, senza credere in qualcosa, senza difendere alla morte ciò in cui crede. Artista e autore di parole e frasi che sbocciano miracolosamente, Christian Bobin ci mette davanti al fatto compiuto, davanti al fatto che le vite vanno infiammate. Scrive, in modo luminoso, quello che non si ha il coraggio di urlare.
L’arte è una lente di ingrandimento che volgiamo verso il sole per dirigerne i raggi sul fieno secco che abbiamo nel petto, al posto del nostro cuore.
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