Super classici con cui è impossibile non fare i conti, autori imprescindibili, solo un italiano, solo una vivente. Sono i sette consigli di lettura avanzati da Davide Rigiani, autore de “Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino” (ne abbiamo scritto qui). Un contributo che arricchisce una delle nostre rubriche più amate (tutte le puntate qui)
“Abbiamo sempre vissuto nel castello” di Shirley Jackson (Adelphi), traduzione di Monica Pareschi
È un romanzo breve del ’62, l’ultimo e forse il migliore libro di Shirley Jackson. La classificazione merceologica ha collocato spesso i suoi libri sugli scaffali del fantasy o dell’horror, finché il loro valore letterario non li ha spostati di forza sullo scaffale della letteratura non di genere. In Italia questo è avvenuto con la ripubblicazione per Adelphi. Si tratta di una dinamica, questa, che rivela una volta ancora l’inconsistenza pregiudizievole del genere come parametro per misurare le opere letterarie.
Abbiamo sempre vissuto nel castello è la storia di due sorelle che abitano in una casa isolata. Una delle due non esce mai, l’altra si reca in città lo stretto necessario, perché là non sono ben viste. Nel loro passato è successo qualcosa di molto brutto, diciamo. Compaiono alcune idee ricorrenti di Jackson. Qui, come nel racconto La lotteria, le moltitudini sono una cosa ostile con cui fare i conti. E, come in L’incubo di Hill House, la casa non è solo uno scenario in cui si svolgono i fatti, è un individuo che si difende, che viene violato, sconfitto o che sconfigge. La casa come corpo, come persona, non è una novità in letteratura da che abbiamo la psicanalisi, forse da prima, ma Jackson declina questa storia con i toni di un fantastico ambiguo e cupo, e lo fa senza una parola di troppo.
“Lezioni di letteratura russa” di Vladimir Nabokov (Adelphi), a cura di Cinzia De Lotto e Susanna Zinato
Non credo sarò io il primo a venirvi a dire che la letteratura russa dell’Ottocento è una cosa interessantissima. Per anni Nabokov l’ha insegnata e analizzata per gli studenti universitari statunitensi, e questo volume raccoglie i testi delle sue lezioni. Si parla dunque di Gogol’, Tolstoj, Čechov, eccetera. Bulgakov purtroppo non c’è perché è arrivato tardi. Peccato. Se vi interessa esiste anche un altro volume, s’intitola semplicemente Lezioni di letteratura, e lì si parla invece di Dickens, Flaubert, Kafka, eccetera. Letteratura non russa insomma. È bellissimo anche questo, ma, se devo scegliere, io preferisco il primo perché Nabokov era russo, e di russi se ne intendeva più di qualunque studioso europeo o americano.
Queste lezioni sono rivolte dunque a un pubblico accademico, ma Nabokov non utilizza un linguaggio particolarmente criptico. Racconta che i personaggi secondari di Gogol’ nascono dalle subordinate delle sue metafore, mentre i personaggi di Dostoevskij si possono classificare in epilettici, senili, isterici e psicopatici. Spiega che il mondo letterario di Gor’kij è fatto di molecole mentre quello di Čechov è fatto di onde. Che con il tempo, nelle civiltà avanzate, certe tradizioni si accumulano e cominciano a puzzare.
Non è una neutra antologia scolastica, è critica letteraria argomentata e zeppa di spunti a proposito di come funziona la letteratura e qual è il suo ruolo in quanto oggetto artistico. Potete anche non essere sempre d’accordo con le opinioni di Nabokov, ma in ogni caso la sua è una prospettiva coerente dalla quale partire per trovare la vostra.
“La donna gelata” di Annie Ernaux (L’orma), traduzione di Lorenzo Flabbi
I libri di Annie Ernaux non sono romanzi, sono ricostruzioni dei ricordi dell’autrice. La sua voce è precisa e sensibile. Le sue parole sono quelle di una testimone che risponde in tribunale con puntualità perché sta denunciando un’ingiustizia.
Io di libri suoi ne ho letti tre o quattro. Sono tutti piuttosto brevi. L’evento, parla di un aborto clandestino nella Francia del ’63. Il posto della distanza culturale e sociale che crescendo l’ha allontanata dal padre. Guarda le luci, amore mio dell’evoluzione dei supermercati e del consumismo. Sono tutte scrupolose descrizioni di come funzionano certe convenzioni sociali sottintese, certe idee tradizionali che non sta mai bene discutere, certe implicazioni di implicazioni. Leve, corde e ingranaggi di trappole sociali. Nel caso di La donna gelata la trappola è il ruolo della donna negli anni ’60, che culmina con il matrimonio. Da allora alcune cose possono magari essere cambiate, molte no. In ogni caso la narrazione di Ernaux va facilmente oltre il tema personale, perché osserva le cose con occhio sociale e politico, e guardando da lì basta poco per immaginare queste stesse leve e ingranaggi intrappolarci tutti quanti nei ruoli che la società ci ritaglia.
“Meridiano di sangue” di Cormac McCarthy (Einaudi), traduzione di Raul Montanari
Il mio libro di McCarthy preferito. Non importa se il western non è il vostro genere, non interessa neanche a me, perché McCarthy potrebbe parlare di pentole e ne verrebbero fuori comunque eleganti considerazioni esistenziali sulla natura dell’uomo narrate con un armamentario retorico che in mano a chiunque altro risulterebbe trito, ma quando lo usa lui è una cosa che sembra nuova e appena stappata. Io non lo so mica come fa. Ovviamente anche qui, come in Shirley Jackson, il valore letterario trascende il genere.
Essenzialmente questa è la storia di un gruppo di cowboy che danno la caccia agli indiani, e fanno e subiscono altre cose, perlopiù atroci. È un libro molto violento, questo è meglio che lo sappiate. Il West è una terra appena inventata, definita con i termini materiali della geologia. Il protagonista è uno qualsiasi di questi vagabondi. Di lui non sappiamo un granché, è poco più di un punto di vista che attraversa gli eventi. Il vero centro del romanzo è il Giudice, un personaggio sovrumano, mefistofelico persino. Un assassino filosofico e scrupoloso, un po’ come il cattivo di Non è un paese per vecchi.
Non sono tanto le considerazioni filosofiche e morali di McCarthy la parte migliore, quanto il lavoro che l’autore fa sulla forma del romanzo, sul modo di trattare i personaggi, di raccontare una storia e di scegliere le parole, senza però perdersi negli sperimentalismi. Questa qua è letteratura.
“Tutti i racconti” di Primo Levi (Einaudi)
Si tratta di una raccolta di raccolte di racconti, nientepopodimeno che. Diciannove euro e vi portate a casa tutti i racconti che Primo Levi abbia mai scritto. Nove e novantanove, in ebook. Tra le raccolte incluse, la più nota è probabilmente Il sistema periodico. È quella nella quale ogni racconto porta il nome di un elemento chimico e narra una storia in qualche modo legata a esso. Perlopiù episodi della vita di Levi, ma non solo.
Qualcuno poi si sorprenderà di trovare anche molti, moltissimi racconti fantascientifici, anche piuttosto folli, a cominciare da quelli inclusi nella raccolta Storie naturali. Levi ha scritto anche fantascienza. L’autore, pare dietro suggerimento di Einaudi, pubblicò Storie naturali con uno pseudonimo. Era già noto per essere il testimone letterario del momento più terribile del Novecento, e probabilmente a qualcuno non sembrò il caso che lo stesso nome firmasse anche storie di fantasia.
Uno dei miei racconti preferiti a ogni modo è Ottima è l’acqua, una storia di sole quattro o cinque pagine. Un’idea appena. Racconta le conseguenze apocalittiche di una lieve variazione del coefficiente di viscosità delle acque. Non va a finire bene, per gli abitanti del mondo. È un racconto che mi torna in mente ogni volta che si discute di che cosa sarà mai la variazione di un grado in più o in meno della temperatura media mondiale.
Sia detto per inciso, se non avete mai letto Levi non è ovviamente da qui che vi consiglio di cominciare a leggerlo. Cominciate da Se questo è un uomo e da I sommersi e i salvati. Dopo però potete passare anche da queste parti.
“La trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf (Einaudi), traduzioni di Armando Marchi, Virginia Ripa di Meana e Giovanni Bogliolo
È un romanzo piuttosto noto, e molto probabilmente lo avete già letto. Io sto qua a consigliarvelo lo stesso perché non si sa mai.
Ágota Kristóf è conosciuta per un paio di cose. La prima è appunto aver scritto La trilogia della città di K, oramai una specie di classico moderno, e la seconda è averlo fatto in una lingua non sua, il francese, che ha imparato non prima dei vent’anni.
Quando la trilogia comincia siamo in tempo di guerra, e le città vengono bombardate. Una donna è costretta ad affidare i suoi due figli gemelli alla loro nonna, un’anziana bestiale e cattiva che vive in campagna. È un inizio crudele, ma si scoprirà presto che i due ragazzini sono a loro volta creature piuttosto inquietanti e capacissime di difendersi.
Per scrivere questa storia Kristóf attinge volutamente a un lessico insufficiente e a una grammatica basilare. Sembrerebbe un limite insormontabile. Come si può fare della letteratura valida in queste condizioni? L’autrice non padroneggia la lingua, non c’è niente da fare, dunque utilizza il poco che ha con molta furbizia. L’essenzialità necessariamente paratattica dello stile diventa l’ambigua e inconfondibile voce dei gemelli. Sono loro che ci raccontano quel che succede dalla prospettiva di un’inusuale prima persona plurale, declinata perlopiù al presente indicativo. Il risultato è un piccolo miracolo letterario che si rinnova a ogni capitolo.
“La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj (Feltrinelli), traduzione di Paolo Nori
Cosa volete che vi dica, Tolstoj è uno degli scrittori e dei pensatori più importanti di tutti i tempi, e questo è quanto. Il libro suo che preferisco è Guerra e pace perché è pieno di personaggi psicologicamente interessantissimi, trame intrecciate, fatti storici reali, considerazioni sociali, politiche, filosofiche, duelli con le pistole, Mosca che va a fuoco. Qualunque cosa. Nel caso però che non abbiate letto ancora niente di Tolstoj, allora sappiate che La morte di Ivan Il’ič è comunque molto bello e sta comodamente in un’ottantina di pagine, mentre Guerra e pace son circa millequattrocento pagine di capolavoro. Fate un po’ voi le vostre considerazioni.
La morte di Ivan Il’ič è tra i romanzi analizzati, molto brevemente, dal sopracitato Nabokov. Si può dire che la parola «morte» nel titolo presenti un doppio senso, perché la storia ripercorre in verità la vita di Ivan Il’ič, il quale però è un tizio disgraziatamente sprovvisto di qualsivoglia vita interiore. Nabokov dice allegramente che Ivan Il’ič vive «una morte vivente». Prima o poi qualcuno avrà l’idea di farne una trasposizione con gli zombi. A ogni modo Ivan Il’ič, e tanti altri come lui, attraversa la vita come un oggetto deterministico. Non ha opinioni morali sue. Assume i comportamenti della società in cui gli capita di trovarsi. La società apprezza le donne e gli uomini come lui, è chiaro, e Ivan Il’ič fa dunque carriera, ma al prezzo di vivere un’esistenza materiale e spiritualmente disabitata. Un baratto che personalmente vi sconsiglio. Uno dei migliori modi per evitarlo tra l’altro è leggere romanzi.
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