McEwan, il nostro tempo e il deserto umano che lo scandisce

La resa dei conti di quattro uomini, in lotta l’uno con l’altro, si ritrovano al funerale della donna che hanno amato. È “Amsterdam” di Ian McEwan, romanzo pressoché perfetto che oscilla tra thriller, horror e tragicommedia. I protagonisti? vittime e allo stesso tempo fautori di destini nel miglior caso fallimentari

Se esiste qualcosa come un romanzo perfetto, fermo restando, si sa, che la perfezione non esiste a questo mondo, e in pochi come in Ian McEwan tale cosa inerente agli esseri umani è mostrata in modo più cristallino nella sua quasi quarantennale attività di romanziere, qualcosa che in ogni caso gli si avvicina molto è Amsterdam (Einaudi 2017, 181 pagine, 11,50 euro), opera dello scrittore inglese di Aldershot del secolo scorso (sembra un secolo fa).

Il romanzo è del 1998 ed è tuttora (come è giusto che sia) nel catalogo Einaudi che da sempre pubblica presso di noi le opere di “Ian McAbre” grazie alle sempre eccelse traduzioni di Susanna Basso, come avviene in quasi tutti i casi.

Il corso infausto e crudele degli eventi

I personaggi, l’intreccio, un meccanismo a orologeria implacabile nel quale dietro la cortina fumogena e patinata del buon vivere civile e borghese come si sarebbe detto una volta, si pre-intuisce e si pre-legge il corso infausto e crudele degli eventi scatenato da esseri avidi e meschini che daranno libero sfogo ai loro peggiori istinti.

La somma eleganza stilistica dell’autore è arricchita dalla graffiante ironia e dal cinico disincanto con il quale da sempre McEwan dipinge le sue tele romanzesche e allestisce sul palcoscenico delle sue opere delle grandi messinscena sempre a cavallo tra la commedia grottesca e la tragedia, con esseri umani dalla inane statura morale, i quali, quando anche fragili e disorientati, sono dediti ad azioni nella maggior parte dei casi riprovevoli, vittime essi stessi e allo stesso tempo fautori di destini nel miglior caso fallimentari. McEwan rappresenta nei suoi romanzi non il dover essere ma ciò che in molti casi è purtroppo il nostro tempo e il deserto umano che lo scandisce, fatto di invidie, rancori, vendette e il più bieco opportunismo.

Il valzer degli addii

I fatti: due amici, uno compositore di musica classica di stampo modernista, l’altro direttore editoriale di un grande quotidiano si ritrovano al funerale di una donna che è stata in passato la loro amante. Alla stessa cerimonia, davanti al crematorio (immagine già di per sé di immaginifica potenza che vale il prezzo del biglietto…ooops del libro) presenziano il vedovo della defunta Molly, George, editore di successo e uomo senza scrupoli, roso dal rancore verso i suoi precedenti rivali in amore e Julian Garmondy, l’attuale (nella fiction romanzesca) Ministro degli Esteri inglese, il quale pure ha avuto una relazione con la donna e ora in odore di passare nientemeno che alla carica di Primo Ministro. La vendetta è un piatto da gustare freddo, ma non troppo, e la triste occasione dà il via al valzer degli intrighi (tutti da scoprire leggendo) e della più sordida e spietata resa dei conti tra i protagonisti, per un indecifrabile desiderio di crudeltà che trova un’unica spiegazione non giustificata nella volontà di autoaffermazione e prevaricazione dei singoli rispetto ai propri simili, con l’aggravante dello svolgersi questa tra coloro che una volta erano stati i migliori amici. Quattro uomini in lotta l’uno con l’altro, forse per una sorta di recondito sentimento di virilità offesa. 

Vendette

Clive, uno dei protagonisti, è un compositore al quale è affidata dal governo, per diretta influenza dell’amico Julian Garmondy, attuale Ministro degli esteri nonché Primo Ministro in pectore, una sinfonia per la celebrazione della fine del millennio. Lo stesso Ministro si trova al centro di uno scoop fotografico scandalistico per effetto di alcune foto che testimoniano il suo amore per il travestitismo che possono mettere a repentaglio tutta la sua carriera politica e la sua intera vita. Il medium di questo infame complotto ai danni di un uomo in ogni caso ritenuto a ragione un pericolo per la politica del paese è Vernon, il direttore editoriale del quotidiano che pubblicherà le foto dello scandalo su imbeccata di George, il rancoroso vedovo della defunta Molly, cosa che causa lo stigma nei confronti di Vernon da parte del suo vecchio amico Clive, apparentemente un’anima bella dedita unicamente alla coltivazione della sua arte musicale, tanto da non intervenire in difesa di una donna che viene aggredita. In queste triangolazioni e ulteriori molteplici relazioni fra i protagonisti del romanzo non si sa da che parte stare, per chi parteggiare, visto che verrebbe da dire il più pulito ha la rogna, individui che hanno “la mentalità di un ricattatore e la statura morale di un pidocchio”.

Micidiale e inesorabile

Amsterdam (il titolo che rimanda alla città olandese ove si svolgerà la resa dei conti finale) è un meccanismo perfetto, un formato relativamente breve (180 pagine) che si può leggere in due, tre, o quattro sedute, pochi pomeriggi o serate nelle quali non vorremmo mai staccarci dalle pagine che morbosamente ci attirano perché in fondo parlano un po’ di tutti noi, un romanzo dal congegno compatto, micidiale, e inesorabile, lontano dallo spazio dilatato del più recente Lezioni (Einaudi 2023), il romanzo-mondo di McEwan uscito da noi quest’anno nel quale svetta la figura e la vita del protagonista Roland Baines che attraversa la storia di mezzo secolo.

I minimi sommovimenti dell’anima

Come in molte altre opere dello scrittore inglese anche in Amsterdam la traccia principale è attraversata da sottotrame e da contenuti che danno la portata ideologica al romanzare di McEwan, come in questo caso, nel quale il romanzo si addentra in digressioni dotte sulla musica, sulle secche dell’ispirazione artistica e la modalità della creatività, in ampie finestre descrittive su come si svolge la vita all’interno della redazione di un grande quotidiano denunciando implicitamente le fobie e nevrosi del giornalismo, in ampie e mai accomodanti e lusinghiere descrizioni e argomentazioni sul mondo della politica. Mc Ewan come sempre sa cogliere al meglio e nel bene e nel male i minimi sommovimenti dell’animo umano, le sue altezze, aspirazioni, desideri e cadute, essendo capace di rappresentare forse come nessun altro le sue bassezze e meschinità. Un tessitore di trame e un architetto di storie formidabile che con questa sua opera di venticinque anni fa offre il meglio di sé, un volume che oscilla tra il thriller, l’horror e la tragicommedia, in poche parole in un piccolo condensato di ciò che di meglio può offrire la letteratura, con quel finale onirico e grottesco e quella sorta di catarsi finale che ci fa sorridere a denti stretti con un senso di commiserazione ed autocommiserazione, una catarsi non liberatoria e beffarda per un McEwan all’ennesima potenza: cattivissimo, ispiratissimo, in un’opera formalmente e stilisticamente al limite della perfezione, che è una bomba a orologeria, il cui finale assomiglia  a quello di una tragedia greca, ove, sebbene non scorra esplicitamente copioso il sangue da spade affilatissime, la morte fa comunque il suo ingresso sul proscenio, in modo subdolo e beffardo a spazzar via le ipocrisie umane, la lordura morale e il fallimento dei destini dei personaggi di un romanzo che se non perfetto è quanto di più prossimo alla perfezione vi possa essere.

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