In una cornice spazio-temporale reale, quella del dopoguerra e di un campo profughi per ebrei scampati ai lager in Salento, Cosimo Buccarella ambienta il suo romanzo “I fuoriposto”, raccontando di un gruppo di tredicenni capaci di un’impresa rocambolesca, con lo scopo di salvare una vita…
Sfiorati. Affamati. Randagi. Spatriati. La letteratura prova periodicamente a sintetizzare periodi, generazioni, sentimenti, atmosfere di un tempo. Riesce, non riesce, riesce parzialmente. Ci prova, spasmodicamente, a più riprese. E sembra esserci stato un ennesimo tentativo, negli ultimi mesi. Il salentino Cosimo Buccarella non è un debuttante assoluto, ma pubblicando per l’editore Corbaccio il romanzo I fuoriposto – ecco una nuova categoria dello spirito – gioca alla grande le proprie carte. In copertina lo sguardo sfrontato di un ragazzo – capelli scompigliati, guance glabre – che tiene a fior di labbra una mezza sigaretta, tra le pagine la scommessa di scrivere un romanzo storico, complesso, mai banale, il cui architrave è l’amicizia, la fedeltà nell’amicizia che, in certi passaggi della vita, ad esempio quando si smette di essere ragazzi per diventare uomini, può essere un collante eterno.
Un altro James Bond
Nella Puglia dell’immediato dopoguerra ci sono quattro tredicenni – Tommaso, Umberto, Marcello e Giovanni – che vanno in giro in bici, esplorano la vita e un campo profughi destinato ai sopravvissuti della Shoah che gli inglesi (c’è anche James Bond, colonnello inglese, solo omonimo dello 007 di Fleming) hanno allestito non lontano dal loro piccolo mondo.
«È grandissimo! Pazzesco! Va da Santa Maria a Porto Selvaggio. È come tre Sannicola messi assieme, ma con molta più gente. C’è anche l’ospedale. Nella piazza poi c’è il comando degli inglesi. Minchia che fucili, ragazzi: pazzeschi! E i gipponi! In una villa c’è la mensa e in quella accanto ci hanno fatto una sinagoga».
La malattia e il chiaroscuro
Romilda, la sorella di Tommaso sta morendo di tifo, e l’ospedale del campo profughi sembra il posto ideale per trovare qualcosa che la salvi. Quei giovanissimi, in qualche modo, bighellonando, vagabondando, finiranno per avvicinarsi troppo alla struttura sotto il comando inglese. Marcello trova il cadavere di un uomo e quella che sembra la semplice storia di un quartetto di ragazzini assume un altra piega. Quel corpo senza vita è di uno degli ospiti del campo («… pochi sentiranno mancanza di Ilie», «era bastardo senza amici», spiega Samuele, interprete del campo, polacco con nonna friulana) e a quel delitto, agli occhi degli inglesi, serve un colpevole. Possibilmente non inglese e non ebreo. Il congegno di Cosimo Buccarella ne I fuoriposto (348 pagine, 18 euro) regge benissimo e, naturalmente, non dà vita a un giallo superficiale, ma a una storia di ben altra profondità, in chiaroscuro, in cui il contrasto più evidente è quello fra la povertà di quell’angolo di Salento e l’abbondanza che si trova all’interno del campo.
Giorni irripetibili
La spensieratezza cede il passo a dinamiche impensabili per giovanissimi che si trovano a tu per tu con la storia, vivendo giorni irripetibili. E, di fatto, si vedono catapultati nella vita adulta: sono loro i “fuoriposto”, che hanno alle spalle storie di privazioni e di miseria. È sapiente la mescolanza di fantasia e contesti storici reali (reale, con tanto di mappa iniziale dei luoghi, il Displaced Persons Camp n. 34, campo profughi di Santa Maria al Bagno, in Puglia, per gli sfollati dei lager), è abile la costruzione di una lenta, sottile tensione, che non è certo quella di un thriller, ma consente a chi legge il romanzo di Buccarella di non mollare mai la presa. E di godersi un rocambolesco e avventuroso viaggio, quello che dà il la alle ultime quaranta pagine (forse non le ultime? forse è possibile credere a un sequel?), che sprigionano consapevolezza d’essere fuoriposto ovunque, determinazione («insieme eravamo in grado di fare qualsiasi cosa»), coraggio, desiderio di vivere per sempre.
Chi ci pensa alla morte, a tredici anni?
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