I “sette libri per l’estate” di… Yari Selvetella

Autori stranieri e italiani, grandi classici e contemporanei. È variegato il ventaglio di proposte di letture dello scrittore romano Yari Selvetella (ultimo libro “Vite mie”), 7 consigli di lettura (qui la serie completa dei suggerimenti) che vi giriamo…

“Diario Aperto” di Michel Tournier (Barbès)

Il titolo Journal extime è un gioco di parole. Non si tratta cioè di un diario intimo ma aperto, di un’autobiografia costruita attraverso l’osservazione radiografica di elementi minimi della quotidianità, come se al fondo di ciò che osserviamo si muovesse pur sempre un’ombra furtiva, la nostra, come se la definizione di sé fosse possibile solo in questo gioco di riflessi. Sono tessere sparse di mosaico, sono schegge luminose, sono riflessioni limpide che diradano l’opacità del presente, talvolta con ironia, talvolta con la nuda abilità di chi non rinuncia alla sfida di trarre significati dall’esperienza. Per andare al prossimo libro citerò da Tournier la seguente frase: “Una prigione non è solo un catenaccio, è anche un tetto. Attenti ai tetti”.

Tournier  

“Anatomia dell’irrequietezza” di Bruce Chatwin (Adelphi)

Chatwin riprende un’espressione dei Journaux intimes di Charles Baudelaire per rievocare la sua formazione: il suo orrore per il domicilio, la sua ripulsa per il mondo borghese diventano il motore di un affascinante tentativo di risalire alla dicotomia ancestrale tra nomadismo e stanzialità. Articoli sparsi, racconti autobiografici, progetti di opere non realizzate, più che comporre una trama tracciano la segnaletica di un sentiero. Chatwin è un inquieto cercatore di sé nel mondo o un abilissimo diluitore dei propri demoni nei luoghi più remoti del globo terracqueo, il che è forse la stessa cosa. Come dimostra anche il prossimo libro.

Chatwin

“Sabbie Arabe” di Wilfried Patrick Thesiger (Neri Pozza/Beat)

Il Quarto Vuoto è il deserto più affascinante e impervio. Situato tra Oman e Arabia Saudita estende il suo silenzio in enormità degne d’un continente. Subito dopo la seconda guerra mondiale, Thesiger, avventuriero, soldato, aneddotista di grande talento, non si accontenta di compiere l’impresa della traversata ma le assegna l’ambizione assai romantica di compiersi fuori dal tempo, anzi in contraddizione con esso. Lo stile di vita dei beduini, tra i silenzi delle notti stellate e la frugalità quasi mistica del loro contegno, lo illude che esistano, al mondo, latitudini refrattarie agli incerti del progresso. Nel deserto egli ravvisa “la pace della solitudine”. Ignora che sotto il nitore abbagliante delle dune si nasconde la vischiosissima materia capace di trasformare anche il più silente degli anacoreti in un volgare accumulatore di Rolex e Lamborghini.

thesiger 

“Diario d’Algeria” di Vittorio Sereni (Einaudi)

Ho risposto nel sonno: – È il vento/il vento che fa musiche bizzarre.

Ma non è, questo, il deserto delle grandi imprese dei viaggiatori. È l’Algeria di guerra del prigioniero Vittorio Sereni. 

Per questo qualcuno stanotte/mi toccava la spalla mormorando/di pregar per L’Europa. 

I grandi poeti si occupano dell’epoca di chi li sta leggendo.

Sereni

“Il male oscuro” di Giuseppe Berto (Neri Pozza)

Nell’anno del bla bla sull’autofiction, buona idea ripescare Berto, che anticipa di un mezzo secolo il collasso della società patriarcale. Machista, rancoroso, fragile, egotico, violento, ossessionato dal successo come e più di un autore del ventunesimo secolo, incastrato tra Dio e Freud, abilissimo affabulatore in una prosa fluviale e pur sorvegliatissima, perfino un po’ stronzo, Berto è un grande scrittore che rende indimenticabili le sue sudarelle, la sua stitichezza, la villeggiatura, la famiglia, il matrimonio. Un romanzo irrimediabilmente datato, incredibilmente contemporaneo.

Berto 

“Qualcosa di scritto” di Emanuele Trevi (Ponte alle Grazie)

Il lettore o la lettrice gradiranno, data la stagione, recarsi due volte in Grecia, alla sacra Eleusi, partendo dalla Roma dei primi anni Novanta. Lontana trent’anni o giù di lì, quell’epoca è come sospesa in una prossimità incapace di alimentare una reale nostalgia, un rimpianto; un’epoca così trasparente che nessuno può nemmeno rinnegarla, forse perché era già intrisa di una malinconia più misteriosa di quanto non si potesse sospettare nei riti del revival, del vintage, del post-moderno. Era un’epoca che già parlava di sé attraverso degli oracoli, un’epoca in cerca di vaticini e che nell’incompiutezza ha mostrato il suo aspetto più originale. E questo libro spiega bene perché.

Trevi

“Quchi” di Caterina Venturini (e/o) 

Quello che abbiamo ingoiato, quello che ci è rimasto sul gozzo, quello che abbiamo deglutito nostro malgrado, nel voler essere scrittrici o scrittori, nell’amare, nel vivere su crinali tumultuosi come placche di continenti in movimento. Un libro tra il centro-Italia e Los Angeles, un romanzo di profondissimo pescaggio autobiografico e perciò onirico, pienamente inventivo, in cui si respira un’ambizione di libertà sempre più rara e che, forse anche per questo, riesce a emozionare fin quasi alla commozione.

Venturini

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