La debuttante Greta Pavan lascia il segno con un romanzo, “Quasi niente sbagliato”, che tassello dopo tassello, ma non cronologicamente, restituisce la vita di una bimba e poi giovane donna alle prese con una realtà che ferisce, taglia, angoscia. I sogni disillusi del lavoro per la protagonista, tra gli anni Novanta dell’infanzia, i primi Duemila della giovinezza e l’oggi…
Quasi niente sbagliato (192 pagine, 16 euro) è il romanzo di esordio di Greta Pavan. Pubblicato da Bollati Boringhieri, è stato finalista al Premio Calvino e si è guadagnato una menzione speciale. Merito forse di quel quasi, perno intorno al quale ruota la storia di Margherita, protagonista colta in capitoli-quadri che ogni volta sbalzano il lettore in anni diversi, dislocando a-cronologicamente una storia che, tassello dopo tassello, restituisce un insieme fatto di provincia, mondo del lavoro e disillusione dal 1996 al 2012.
L’illusione del lavoro
C’è il lavoro, in queste pagine: il sogno di una carriera da giornalista e le tappe che ne logorano la tenuta. Ogni volta è la realtà a dettare legge, lo spietato regolamento sociale che appiccica la protagonista all’etichetta ineludibile che le spetta quasi per nascita: “tu lavorerai per la sopravvivenza, dimenticati un sogno nel cassetto”.
Siamo in Brianza, i nonni della protagonista sono emigrati veneti arrivati lì spinti dal lavoro, un imperativo al quale hanno obbedito, contribuendo a creare lo stereotipo che oggi attribuiamo automaticamente alla zona. È la Brianza operosa, quella dei capannoni industriali e dei centri commerciali, quella a un passo da Milano, che tuttavia non è il centro e resta per questo anonima, come scollegata da tutto ciò che potrebbe essere. Margherita cresce nell’ideale di un luogo operoso per fondazione: ha imparato che, impegnandosi, ce la potrà fare. Suo malgrado scoprirà che non funziona più così, e passando da un lavoro deludente a un altro, sfruttata e non valorizzata, vedrà la crepa della sua dignità, già incrinata fin dalle prima pagine, farsi sempre più evidente, diventare nitida rispetto a uno sfondo che è come immobile.
Entra in scena un futuro nato già disilluso, quello che caratterizza la generazione dell’autrice – e della protagonista. È il mondo dei lavori sottopagati, della precarietà esistenziale, delle frustrazioni legate ad aspirazioni soffocate ancora prima, quasi, di prendere coscienza di sé. Non c’è tempo né modo per soffermarsi a riflettere o protestare, bisogna adattarsi al mondo per stare a galla, rinunciare a una parte di sé che non potrà sbocciare, conformarsi a standard decisi dal tempo, incrostati su dinamiche più grandi di una bambina e poi ragazzina, superare le quali non è previsto, o sarebbe uno strappo troppo forte e autorevole.
Correva l’anno
La particolarità più evidente del romanzo di Greta Pavan è l’architettura. I capitoli non procedono su una linea cronologica regolare – da quando Margherita è piccola alla sua giovinezza – ma in modo randomico. Ogni capitolo racconta la scena apparentemente inutile ma lampante per l’evoluzione della protagonista, dal 1996 al 2012. Ognuno è quindi una sorta di quadro, tessera di un mosaico che si compone leggendo. Vediamo Margherita bambina, alle prese con la scuola, poi adolescente, tra smarrimento e primi lavoretti, poi di nuovo ragazzina, in quadri familiari degli anni Novanta, e ancora giovane donna, inserita nel mondo del lavoro e ormai avvezza alla disillusione.
Ogni quadro temporale ci ricorda l’anno e l’età di Margherita, che resta sempre la voce narrante, filo conduttore di una vicenda solo apparentemente spezzettata. Le varie fasi dell’esistenza della protagonista rendono in realtà assai coerente una storia che ha molto a che fare con il suo contesto temporale: gli anni Novanta dell’infanzia, i primi Duemila della giovinezza, l’oggi. Margherita cresce all’interno di un contesto socio-culturale, economico e geografico ben preciso che, fuori da queste coordinate, non avrebbe la stessa carica narrativa di pagine affilate e intrise di realtà. Nel corso degli anni, e nelle diverse tappe dove la crescita della protagonista si mescola alle sue esperienze e alla maturata consapevolezza di ciò che ha intorno, appaiono e scompaiono personaggi: dai familiari ai datori di lavoro e agli insegnanti, ognuno contribuisce a formare una scenografia e a restituire il disegno di una visione generale dietro alle aspirazioni, via via frustrate, di Margherita. Non c’è dunque nulla di casuale in questo collage di anni – dai sei ai ventidue – corsi a cercare di ancorarsi a un sogno, ogni volta riassestando la rotta, fino quasi a perderla, sprofondati nella consapevolezza della propria inutilità nel cambiare le sorti di una ragazzina cresciuta nella Brianza degli anni Novanta.
Brianza: un’etichetta indelebile
È una realtà che ferisce, taglia, angoscia. Il romanzo si apre con una bambina, il cadavere di un cane, uno stradone deserto e quella che le pagine dei giornali di oggi definirebbero scena di catcalling. Che, a ben vedere, lo è davvero: ma siamo negli anni Novanta, immersi in un angolo di Brianza e non c’è ancora coscienza sociale, non c’è possibilità di uscire dal regolare andamento dei fatti, dai posti già assegnati alle persone, siano madri scombinate dopo matrimoni rotti, nonni silenziosi malati di patriarcato o bambine che devono capire fin da piccole come adattarsi a un mondo che offre loro solo strade difficili, se non impossibili. In quel grumo di mediocrità imposta vediamo Margherita crescere attraverso momenti disordinati sulla linea temporale ma più che espliciti nell’intento dell’autrice di raccontarci come sono andate le cose, nell’esplorare quel “quasi” ripreso nel titolo.
Margherita è l’esito di un contesto che non le lascia strada, la sua vita, le sue non-scelte e i suoi “quasi”, o i suoi “sbagli” si succedono come naturali conseguenze della stagnazione di una provincia industrializzata che non sa evolversi, non sa aspirare al meglio. Milano è lì a portata di mano, ma lo sfondo delle vicende di Margherita resta fatto di asfalto, stazioni, campi e ponti ferroviari. Sembrerebbe il luogo perfetto da cui spostarsi per trovare degli altrove in cui crescere e costruirsi una propria identità, professionale e umana, ma non funziona sempre così, almeno non per Margherita, schiacciata da questa Brianza ostile e vuota, pozzo in cui affogare i propri desideri personali sullo sfondo del lavoro faticoso che ha tenuto in piedi le generazioni precedenti.
È un romanzo duro, quello di Greta Pavan, per certi versi buio, ma attraversato da lampi di trasparenza che più di tante scene edulcorate – che mancano totalmente in questa storia – mette a confronto con un contesto diventato così stereotipato e così assodato da non suscitare neanche più una riflessione. Cosa che, come tutta la buona narrativa, Quasi niente sbagliato riesce a fare con una chiave narrativa e un piglio critico di grande originalità.
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